GLUTEI QUASI SCOPERTI, NIENTE ATTI CONTRARI ALLA
PUBBLICA DECENZA
Con la Sentenza
n. 39860 del 2014 la Corte
di Cassazione ha assolto dal reato di atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 Codice Penale) due prostitute stradali
diurne in provincia di Asti, che il 22 novembre 2011 stavano esercitando lungo
la strada SS. 231 nel tratto compreso tra Isola d'Asti e Costigliola d'Asti.
Orbene, nella zona citata le due meretrici in questione stavano praticando il
relativo adescamento giornaliero in abiti fortemente succinti, tanto che i
glutei delle due persone descritte erano quasi interamente scoperti (cosa che
si nota facilmente durante le primavere, estati e precoci autunni sulle strade
del sesso italiane). Il Giudice di Pace
relativo ha riconosciuto la violazione in merito ed ha condannato i due
soggetti in questione al pagamento dell’ammenda prevista dalla medesima
normativa. Però, queste due professioniste del sesso non si sono scoraggiate a
dover pagare la connessa somma con l'aggiunta delle spese processuali
corrispondenti ed hanno svolto ricorso in Cassazione,
la quale ha riscontrato la non sussistenza del fatto, siccome questo tipico
comportamento, che si è limitato unicamente nell’indossare i detti abiti super
succinti, non può più essere giudicato offensivo. In effetti, precisa sempre la
Suprema Corte, la pubblica decenza
non è sempre la stessa nel tempo e la relativa offesa varia con il modificarsi
del sentimento pubblico e poiché nelle spiagge ed in altri luoghi pubblicamente
frequentati da diversi cittadini non selezionati, tale comportamento al pari
del seno nudo, è diffuso, esso stesso non può essere più giudicabile lesivo in
merito, come la legge delega ai magistrati di valutare.
Così, la Cassazione
ha precisato che la sola condotta d’indossare una minigonna cortissima, tenendo
almeno coperto il genitale femminile, non è più un atto contrario alla pubblica
decenza. Però, tale fattore, sempre secondo i Giudici Supremi, può essere riscontrabile se quest’azione si manifesta
nelle immediate vicinanze di luoghi particolari, come quelli di culto e le
scuole, oppure altri comportamenti simili all’azione d’alzare la gonna od
abbassare le mutande al fine di mostrare espressamente gli stessi glutei. In
altre parole, la Cassazione spiega
che per offendere la decenza non è
sufficiente il semplice abbigliamento, ma che questo deve essere
obbligatoriamente accompagnato da condotte concretamente offensive della
moralità pubblica, tali da suscitare il senso di disgusto nell’uomo (donna)
medio(a).
In questo modo, dovrebbe essere esclusa analogamente
anche la violazione dell’articolo 5
della Legge 75/1958 “Merlin”
a riguardo dell’adescamento scandaloso del meretricio, visto che tale branca
normativa è proprio un aggravante dell’articolo
726 del Codice Penale, quando sussiste in essere anche il sesso a
pagamento.
Sicuramente, per la stessa Sentenza dovrebbe essere
lecito per le prostitute stradali stare in costume da bagno ridotto come quello
che si nota nelle spiagge e restare in sole “scarpe e borsetta” dalle
23.00 alle 07.00 nei luoghi extraurbani di campagna, come il
medesimo identificato nella pronuncia in esame, poiché durante questa fascia
oraria in televisione, da ciò che so, si può utilizzare un linguaggio contrario
alla pubblica decenza e possono andare in onda i film erotici vietati ai minori
di quattordici anni. Difatti, nella Sentenza
n. 39860 del 2014 al
punto 9.1 la medesima Corte
Giudicante ha affermato che per valutare il comune senso del pudore si
devono considerare anche le trasmissioni televisive.
Nuovamente la Corte
di Cassazione con la pronuncia n.
22475/2015 ha confermato che gli atti contrari alla pubblica decenza non
sono rilevabili, se una prostituta sulla pubblica via in zona non abitata
mostra i glutei semiscoperti con la biancheria intima relativa a causa della
connessa minigonna cortissima e se tale soggetto si limita unicamente a
quest’azione.
Si elenca di seguito i testi delle succitate pronunce.
Corte di
Cassazione, sez. III Penale, sentenza 23 aprile – 26 settembre 2014, n. 39860
Presidente
F. – Relatore G.
Ritenuto in fatto
1. Il Giudice di pace di Asti, con sentenza del 18
aprile 2013, dichiarava N.E. e H.S. colpevoli del reato di cui all'art. 726
cod. pen. [per atti contrari alla pubblica decenza
commessi il 22 novembre 2011, in orario diurno (15,55 circa), lungo la strada
SS. 231 nel tratto compreso tra Isola d'Asti e Costigliola d'Asti]
condannandole, ciascuna, alla pena di euro 258,00 di ammenda.
2. Per l'annullamento della sentenza hanno proposto
ricorso entrambe le imputate, a mezzo del loro difensore di fiducia, il quale
ha dedotto l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale, perché
la condotta incriminata, consistita nel permanere nella strada pubblica
(verosimilmente per esercitare il meretricio) indossando un abbigliamento
succinto sì da consentire ai passanti la visione dei glutei parzialmente
scoperti, non integrerebbe il reato contestato e comunque rientrerebbe nel
concetto di tollerabilità dei comune sentire dell'uomo medio. Il difensore
lamenta, altresì, manifesta illogicità della motivazione poiché il giudice
avrebbe irrogato una pena identica per condotte sostanzialmente diverse, tenuto
conto che diverso era l'abbigliamento rispettivamente indossato da ciascuna
delle due donne.
Considerato in diritto
3. Deve premettersi che la sentenza impugnata fonda
l'affermazione di responsabilità delle imputate su una prova non ritualmente
acquisita.
3.1 In sede dibattimentale, invero, il P.M. ha rinunciato
all'escussione dei propri testi di accusa ed il giudice non ha disposto darsi
lettura di alcun atto, in particolare dei rapporto redatto dalla polizia
giudiziaria, non risultando altresì che vi sia stato accordo delle parti nel
senso dell'utilizzabilità di tale atto ai fini dei decidere (art. 29 del d.Lgs. n. 274/2000).
4. Il ricorso, comunque, deve essere accolto nel merito
e deve pervenirsi all'annullamento della sentenza, per insussistenza del fatto,
per le ragioni che vengono esposte di seguito.
5. Non ignora il Collegio che un precedente
orientamento di questa Sezione, espresso nelle decisioni n. 23083 del 3.5.2011,
Rv. 250648 e n. 47868 del 10 dicembre 2012 (non
massimata), ha ribadito la configurabilità dei reato in esame in ipotesi di
esibizione di parti intime, quali i glutei scoperti, affermando che tale
condotta è contraria al sentimento di costumatezza così come inteso tuttora
dalla comunità/collettività sociale.
6. Va rilevato, però, che entrambe le decisioni citate
affermano il principio anzidetto in termini sostanzialmente assertivi, mancando
una compiuta valutazione di tipo storicosociologico riferita al momento in cui
il giudizio è stato formulato: in altri termini il criterio cui entrambe le
decisioni si ispirano sembra piuttosto limitato a parafrasare il precetto
normativo, peraltro generico nella sua formulazione in quanto viene punito più
che un fatto determinato, un atto o comportamento da considerarsi contrario
alla pubblica decenza.
6.1 Il punto essenziale di riferimento, nel caso
dell'art. 726 cod. pen., è dato proprio dalla
"pubblica decenza", concetto che, con il passare degli anni, ha
inevitabilmente subito modifiche con il mutare della mentalità e della cultura
ed il cui contenuto semantico si è così andato man mano restringendo,
inglobando una varietà sempre minore di comportamenti: col mutare dei costumi e
degli usi, infatti, quello che per il comune sentire era indecoroso ed
addirittura indecente 40-50 anni fa, non lo è più oggi. Si pensi, ad esempio,
all'uso di taluni capi di abbigliamento (delle gonne più corte di altre o di
camicette scollacciate) od anche al baciarsi in pubblico: questi, come altri
comportamenti che erano ritenuti biasimevoli negli anni passati, non lo sono
più oggi e pertanto, poiché ora socialmente accettati, non possono più
definirsi tali da provocare disgusto o disapprovazione nei consociati e quindi
non più contrari alla pubblica decenza.
6.2 Manca, invece, nei precedenti giurisprudenziali ai
quali si è fatto riferimento dianzi, un approccio esegetico che abbia in
considerazione il mutamento del costume e sentire sociale in continuo divenire,
il che finisce con il rendere quelle decisioni non il risultato di una
interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico, quanto piuttosto
una tralatizia ripetizione di concetti (il comune sentire; la pubblica decenza)
ritenuti scontati e immutevoli, sicché il giudizio
che ne discende finisce con l'essere cristallizzato nel tempo.
6.3 Storicamente la nozione normativa di "pubblica
decenza" è stata esaminata e costantemente rivisitata alla luce
dell'evolversi dei costumi sociali e del comune senso del decoro e della
decenza: ciò è tanto vero che in una decisione ormai datata - ma per certi
versi attuale quanto alla regola di carattere generale che viene affermata -
questa Corte aveva già affermato che il concetto di pubblica decenza è "a
limite mobile" nel senso che ciò che è, o meno, considerato decente presso
una determinata comunità di consociati cambia progressivamente nel tempo col
mutare delle idee o dei sentimenti o anche delle abitudini della collettività
(Sez. 6^ 30.4.1980 n. 10435 AA., Rv. 147186).
6.4 Si tratta di un principio di civiltà ed elasticità
giuridica che è valso, nel tempo, a ritenere scriminata la condotta di
esposizione da parte della donna del seno nudo in spiaggia, per il rilievo che
tale parte anatomica femminile scoperta non suscita, nell'uomo medio del tempo
di oggi riferito al nostro Stato, alcun apprezzabile turbamento (in senso
analogo v. anche Sez. 3^ 8.7.1982 n. 11015, F., Rv.
156227; idem 14.10.1980 n. 124, B., Rv. 147230).
6.5 Tale gruppo di decisioni, risalente ad oltre
trent'anni, permette - alla luce dell'inevitabile intervenuto mutamento del
modo di giudicare, da parte della comunità, la decenza o meno di un atto o
comportamento umano - di distinguere tra condotte suscettibili nel tempo di una
diversa valutazione rispetto ad altre che, per le loro intrinseche
caratteristiche di offensività del comune sentimento della costumatezza, non
hanno mai modificato il giudizio negativo di rilevanza penale da parte della
collettività: l'esempio più eloquente di tale differenza lo si coglie con
riferimento a quelle condotte di esibizione degli organi genitali, solitamente
maschili, accompagnate dall'orinare in pubblico, posto che nel comune
sentimento che caratterizza il senso di decoro, verecondia, costumatezza ed
educazione, tale gesto fisiologico viene considerato come una gratuita
manifestazione di sé naturalmente destinata alla riservatezza, ma tale da
suscitare negli altri un senso di disapprovazione o disgusto o disagio (tra le
tante, Sez. 3^ 25.10.2005 n. 45284, A., Rv. 233138;
idem 25.3.2010 n. 15678, P.G. in proc. T. e altri, Rv.
246972; Sez. 5^ 13.1.1986 n. 3254, R., Rv. 172533,
secondo le quali vanno considerati atti contrari alla pubblica decenza quelli
che, prescindendo dalla sessualità, vengono posti in essere in spregio ai
criteri di convivenza e di decoro da osservarsi nei rapporti tra i consociati,
determinando in costoro disgusto, disagio, disdegno e disapprovazione, come
l'orinare in luogo pubblico, indipendentemente dalla concreta percezione del
gesto da parte di terzi, essendo sufficiente il pericolo che ciò possa
accadere).
6.6 Potrebbe, a prima vista, ritenersi che anche
l'esibizione di parti anatomiche muliebri destinate alla riservatezza abbia
formato oggetto di giudizi (negativi) di segno analogo da parte della
collettività, come implicitamente dimostrato dalle due menzionate decisioni n.
23083/2011 e n. 47868/2012; ma non può negarsi che, in simili ipotesi,
l'evolversi dei tempi può avere condizionato il comune modo di sentire, finendo
con il relativizzare il giudizio in rapporto al contesto spazio-temporale in
cui quelle condotte siano state poste in essere: ciò vale soprattutto per i
casi di esibizione dei seno nudo in spiaggia che, nel tempo ed in dipendenza di
un mutato modo di sentire dell'uomo medio, hanno perso la loro rilevanza
penale. E in aggiunta non può non rilevarsi come l'esibizione dei glutei
femminili pressoché scoperti in spiaggia e nel periodo estivo, anche in luoghi
solitamente frequentati da bambini, viene ormai accettata dalla maggioranza
come manifestazione, magari non eticamente apprezzabile, forse anche
diseducativa, ma non penalmente rilevante, in quanto non produttiva di quel
senso di disgusto, disagio e disdegno integrativo della fattispecie
codicistica.
6.7 Non si comprende, peraltro, quale differenza vi possa
essere - ai fini della ricomprensione della condotta oggi in esame nella
fattispecie contestata - tra esibizione di seni nudi ed esibizione di glutei,
peraltro non in modo integrale e nemmeno totalmente scoperti, posto che nelle
due fattispecie oggetto delle precedenti pronunce dianzi citate (allo stesso
modo che nella fattispecie attualmente al vaglio di questa Corte) si trattava
di glutei solo in parte scoperti, in quanto le donne coinvolte in tutte le
occasioni suddette indossavano un abbigliamento (perizoma) succinto che
lasciava comunque coperto l'organo genitale femminile.
6.8 Un criterio
distintivo apprezzabile potrebbe essere, allora, in sintonia con la generica
formula legislativa, quello della contestualizzazione spaziale del fatto nel
senso che, laddove una esibizione avvenga in un ambito spaziale ben definito ed
in cui la regola comune è quella dell'osservanza della pudicizia e del decoro,
da interpretarsi in modo rigido (si pensi ad una scuola ovvero ad un luogo di
culto), potrebbe profilarsi quell'offesa al comune senso di decenza tipico
della norma penale, mentre laddove ciò avvenga in una zona frequentata da una
comunità indifferenziata di persone, ma senza imposizione di limiti specifici,
quanto meno il senso di decenza deve essere interpretato cum grano salis e comunque in termini più
flessibili.
6.9 Del resto, data per scontata la variabilità del
sentire comune adattata ai tempi, questa Suprema Corte ha avuto modo di
precisare che, ai fini della determinazione - per quanto qui rileva - della
categoria degli atti contrari alla pubblica decenza, "il giudice deve
adottare, quali parametri di valutazione del modificarsi dei costumi
sull'intero territorio nazionale, mode (costumi generalizzati ed accettati) e
mass-media (televisione, radio e giornali quali "fabbrica" e
"specchio del comune sentire", del generale stato di accettazione del
mutamento di costume, della tolleranza nel pluralismo); parametri non variabili
nello spazio, ma, pur tuttavia, il giudice medesimo deve prendere
approfonditamente in considerazione le diverse, concrete circostanze" (nel
caso concreto si trattava di reato contestato a soggetto di sesso femminile -
avvocato - che si era presentato nell'androne del carcere indossando una
succinta minigonna).
7. La giurisprudenza, inoltre, ha riconosciuto in più
occasioni che l'atto contrario alla pubblica decenza deve rappresentare una
grave sconvenienza. Vengono, quindi, in rilievo aspetti che coinvolgono il
comune sentire di una collettività indifferenziata di persone e che non
attengono tanto all'aspetto sessuale, quanto a quello della costumatezza o
della riservatezza nel linguaggio o nei comportamenti. Tanto, però, si
ricollega alla mutevolezza, nel tempo, di nozioni generali che, per lo stretto
riferimento che assumono rispetto ad in determinato periodo storico, sono
destinate a variare secondo il modo di sentire consolidato di una collettività
in una determinata epoca.
8. Si è già rilevato che il concetto di buon costume
così come quello di decenza e decoro, per la stessa loro elasticità, hanno
subito nell'arco di un secolo (per essere vicini ai giorni nostri) mutamenti
epocali, con il variare della mentalità e della cultura, sicché comportamenti
che erano ritenuti biasimevoli negli anni passati oggi non sono più tali e sono
socialmente accettati.
8.1 Anche la giurisprudenza penalistica formatasi nella
materia ha modificato nel tempo il proprio assetto, giungendo a ritenere leciti
in un determinato periodo storico comportamenti che prima non lo erano. In tale
percorso si è sovente assistito ad una osmosi tra giurisprudenza e sentire
comune vicendevolmente influenzabili secondo le contingenze temporali, non
potendosi negare che talvolta siano state le pronunce giurisprudenziali a
dettare regole di comportamento poi accettate e condivise dalla collettività.
9. Non può negarsi, in ogni caso, la necessità che il
giudice penale, chiamato a giudicare un determinato comportamento alla luce di
una norma volutamente indeterminata, effettui una valutazione di tipo
storico-sociologico riferita al momento in cui tale giudizio deve essere
espresso, riempiendo di contenuto un concetto necessariamente generico e, come
detto, mutevole nel tempo.
9.1 L'interpretazione
del sentimento comune dell'uomo medio di oggi non può naturalmente prescindere dal
riferimento all'uomo di media cultura e di medio spessore morale inserito in
una comunità laica (quale è, appunto, quella nazionale), ispirata a principi di
tolleranza e di democrazia, in cui gli orientamenti culturali e morali possono
essere (ed in effetti lo sono) influenzati da altri fattori soprattutto di tipo
mediatico tra i quali un ruolo sicuramente non marginale va riconosciuto alle
innumerevoli trasmissioni televisive (oggetto di visione anche da parte di
bambini) in cui sempre più spesso compaiono donne (ma anche uomini) in
abbigliamento talvolta più che succinto, senza che vengano imposti limiti a
dette trasmissioni.
10. Per concludere, allora, la nozione di pubblica
decenza rappresenta un concetto relativo e non assoluto che, riferito al significato
penale, esige che venga offeso quel senso morale comune sì da suscitare
disgusto e disapprovazione nell'uomo medio rapportato al nostro tempo: ma
questa relatività concettuale impone che, al di là delle visioni di parti
anatomiche di un corpo, vi siano, da parte di chi mette in mostra il proprio
corpo, comportamenti spropositati e non giustificati in un determinato contesto
spaziotemporale.
10.1 In questo senso va ricordato l'orientamento recentemente espresso da
questa Sezione con la decisione, non massimata, n. 3127 del 28 novembre 2013
nella quale si è affermato che le sole caratteristiche dell'abbigliamento non
sono sufficienti alla integrazione della fattispecie contravvenzionale in
assenza di altri elementi rilevanti idonei a far ritenere che
quell'abbigliamento fosse tale da arrecare una offesa concreta al bene protetto
dalla norma, pervenendosi, poi, alla conclusione dell'annullamento con rinvio
della sentenza del Giudice di pace per nuovo esame alla luce dei principi di
diritto fissati da questa Corte Suprema.
11. Lo stesso legislatore del resto - in una acquisita
consapevolezza del mutare dei tempi e della inattualità di alcune ipotesi
criminose - con la legge 28 aprile 2014, n. 67 (pubblicata nelle more della
redazione della presente sentenza), contenente la delega al Governo anche per
la riforma della disciplina sanzionatoria dei reati, all'art. 2, comma 2, lett.
b), ha incluso proprio l'art. 726 cod. pen. tra le
fattispecie contravvenzionali punite dal codice penale da trasformare in illeciti
amministrativi, esprimendo così, ad evidenza, una valutazione di irrilevanza
penale dei comportamenti a tale norma riconducibili.
12. Volendo allora trarre alcune conclusioni generali sull'argomento
in esame, può dirsi che - allo stato attuale della legislazione - ai fini della
integrazione della fattispecie contemplata dall'art. 726 cod. pen. non è sufficiente il mero abbigliamento trasgressivo e
spinto per poter ritenere compiuta l'offesa alla pubblica decenza, occorrendo
invece che forme siffatte di abbigliamento vengano accompagnate da
comportamenti concretamente offensivi da parte dell'agente tali da suscitare
quel senso di riprovazione o disgusto o disagio nell'uomo medio tipico della
fattispecie medesima.
13. Alla stregua delle considerazioni dianzi svolte e con
riferimento al caso sottoposto al vaglio di questo Collegio, deve rilevarsi che
nella sentenza impugnata il giudice si è limitato sostanzialmente a prendere
atto del tipo di abbigliamento indossato dalle due donne, insufficiente per le
oggettive caratteristiche a far ritenere concretizzata l'offesa alla pubblica
decenza, in una situazione in cui non risulta che le imputate siano state
denunciate all'autorità amministrativa per condotte di adescamento e non emerge
comunque che le stesse abbiano tenuto atteggiamenti ulteriori di richiamo, di
invito o di saluto allusivo verso potenziali "clienti".
14. Si impone, quindi, l'annullamento della sentenza
senza rinvio perché il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il
fatto non sussiste.
Cassazione Penale Sent. Sez. 3 Num. 22475 Anno
2015
Presidente: T. A.
Relatore: A. A.
Data Udienza: 21/10/2014
SENTENZA
sul ricorso
proposto da C. C. L., nata in Romania il (Omissis)
1987, avverso la sentenza del 13/11/2012 del Giudice di pace di Bologna;
visti gli
atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la
relazione svolta dal consigliere A. A.;
udito il Pubblico
Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale
F. S., che ha concluso chiedendo
l'annullamento con rinvio.
RITENUTO IN FATTO
1. La sig.ra
C. C. L. ricorre, per il tramite del difensore, per l'annullamento della
sentenza del 13/11/2012 del Giudice di pace di Bologna che l'ha condannata alla
pena di € 900,00 di ammenda per il reato di cui all'art. 726, cod. pen., per avere, in luogo aperto al pubblico, compiuto atti
contrari alla pubblica decenza, indossando abiti succinti che lasciavano intravedere
i glutei; fatto commesso in Bologna il 01/07/2010. Si legge nella sentenza che
l'imputata era stata notata da una pattuglia dei Carabinieri sul ciglio di una
strada generalmente frequentata da meretrici, con indosso una minigonna tirata
su al punto da mostrare i glutei e la biancheria intima.
1.1. Con
unico motivo il difensore eccepisce l'insussistenza del reato per mancanza di
offesa al bene giuridico che non può trovare tutela - afferma – sol perché
l'imputata stava esercitando il meretricio. La medesima condotta, prosegue, sul
piano oggettivo è generalmente tollerata, se non addirittura consentita, non
potendosi ritenere indecente il fatto in sé di mostrare i glutei. Sicché,
conclude, appare evidente il pregiudizio che anima la decisione impugnata,
ispirata dallo sfavore nei confronti di una condotta che, semmai, integra
l'illecito amministrativo di cui all'art. 5, n. 1, legge 20 febbraio 1958, n.
75.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il
ricorso è fondato.
3. Il Collegio condivide e fa propri i diffusi
argomenti ed il principio espressi in analoga fattispecie da questa Suprema
Corte, secondo cui ai fini della integrazione del reato di cui all'art. 726
cod. pen. non è sufficiente che l'agente indossi un
abbigliamento trasgressivo e spinto per arrecare offesa alla pubblica decenza,
occorrendo invece che lo stesso accompagni all'uso di tali forme di vestiario
comportamenti idonei ad offendere concretamente il bene giuridico tutelato, in
modo da suscitare nell'uomo medio del tempo presente e in relazione al contesto
spazio-temporale della condotta, un senso di riprovazione, disgusto o disagio
(Sez. 3, n. 39860 del 23/04/2014, Rv. 262490; cfr.
anche Sez. 3, n. 3127 del 28/11/2013, non mass.).
3.1. Nel
caso di specie si tratta di una prostituta che esercitava il meretricio,
circostanza resa palese, secondo la stessa sentenza, sia dall'abbigliamento,
chiaramente finalizzato ad adescare clienti, sia dal contesto in cui è stata
tenuta la condotta.
3.2. L'abbigliamento succinto, nei termini
incontestabilmente descritti nella rubrica, assolveva alla chiara funzione di
rendere univoco e percepibile "ictu
oculi" il senso della presenza della donna a bordo strada, ma non è
chiaro se, oltre all'esposizione dei glutei, nei termini sopra indicati, vi
siano stati comportamenti spropositati e non giustificati avuto riguardo al
contesto in cui la condotta è stata tenuta.
3.3. Ne
consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio al Giudice
di pace di Bologna che, nel riesaminare la vicenda, si atterrà al principio di
diritto compendiato al capoverso 3 che precede.
P.Q.M.
Annulla la
sentenza impugnata con rinvio al Giudice di pace di Bologna.
Così deciso il 21/10/2014.
Scritto il 31 maggio 2015