Logo sito

 

 

PROSTITUZIONE E TASSE

 

La Corte di Cassazione con la Sentenza 1° ottobre 2010, n. 20528, ha stabilito che anche la prostituzione tra adulti deve essere soggetta a tassazione, poiché è un’attività “lecita”. Di conseguenza, a partire dalla suddetta data in Italia, il meretricio dovrebbe essere un’attività tassabile a tutti gli effetti.

Successivamente, la stessa Suprema Corte Giudicante ha riconfermato con la pronuncia 13 maggio 2011, n. 10578 che il meretricio è effettivamente da considerare come un’attività normale e con la medesima ha affermato che l’articolo 36 comma 34 bis della Legge 248/2006, facente capo alla Legge 537/1993 articolo 14 comma 4 ed all’articolo 6 comma 1 del D.P.R. 917/1986 T.U.I.R., ha implicitamente modificato la Legge 75/1958 agli articoli 7 e 3 comma primo numero 8, derogando i rispettivi dettami ai fini fiscali. In più, nella identica Sentenza viene citata la pronuncia della Corte di Giustizia Europea del Lussemburgo (Organo dell’Unione Europea) del 20 novembre 2001, causa C268/99, la quale afferma che la prostituzione può essere inquadrata in un’attività economica a libera professione. Di conseguenza, il meretricio in Italia può e deve essere assoggettato a tassazione con imposte dirette ed indirette come l’IRPEF e l’IVA.

Inoltre, la stessa Sentenza n. 10578/2011 della Cassazione ha ripreso anche quella precedente n. 20528/2010 che ha definito la relativa attività come non illecita.

Con tutto questo si può benissimo affermare che chiunque eserciti la prostituzione in Italia può e deve aprire una partita IVA, rilasciare la relativa ricevuta fiscale ai propri clienti ed avere un servizio di consulenza contabile da parte dei commercialisti, i quali, se esercitanti regolarmente la rispettiva professione, non dovrebbero incorrere nelle sanzioni penali di favoreggiamento e sfruttamento dell’altrui prostituzione, grazie proprio alla deroga applicata dall’articolo 36 comma 34 bis della Legge 248/2006 nei confronti della Legge 75/1958, ricordando oltretutto l’esistenza dell’articolo 3 della Costituzione Italiana che garantisce l’eguaglianza di tutti i cittadini, compresa il pari trattamento sociale.

Giustamente, il lavoratore sessuale con cittadinanza di uno Stato extracomunitario avrebbe diritto al permesso di soggiorno, salvo esaurimento delle quote d’ingresso relative ai medesimi lavoratori autonomi, mentre quelli Comunitari potrebbero benissimo ottenere l’Iscrizione Anagrafica nel rispettivo Comune di dimora.

Infine, voglio citare che questa operazione di tassazione del meretricio è conforme alla Convenzione ONU 1949/1951 sulla prostituzione, ratificata dall’Italia in via definitiva nel 1980, poiché il corrispondente articolo 1 punisce qualsiasi persona e non uno Stato che sfrutti la prostituzione altrui ed il relativo articolo 6 afferma che le/i meretrici non possono essere iscritti in registri speciali ed eccezionali, ma non ordinari. Su quest’ultimo punto ne consegue che i lavoratori sessuali dovranno essere sottoposti a tassazione in maniera uguale a tutti gli altri liberi professionisti, senza distinzione particolare da questi.

In più, sottolineo che ai sensi degli articoli 3 e 53 della Costituzione Italiana, i quali garantiscono il pari trattamento dei cittadini ed il relativo obbligo di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, la stessa Legge 75/1958 “Merlin” potrebbe anche essere derogata da una sentenza della Corte Costituzionale nei suoi dettami e divieti ai soli fini fiscali.

Ulteriormente, la stessa Cassazione ha ribadito i medesimi concetti con l’Ordinanza n. 18030/2013, attraverso la quale è stato dichiarato inammissibile un ricorso di una meretrice che non ha denunciato al fisco i rispettivi introiti.

Rivelo che l’articolo 2 CE, citato nella Sentenza della Corte di Giustizia Europea del Lussemburgo 20 novembre 2001, causa C-268/99, adesso è stato assorbito dall’articolo 3 del Trattato sull’UE e dall’articolo 119 del Trattato di Funzionamento dell’UE, introdotti con il Trattato di Lisbona dell’Unione Europea. La suddetta pronuncia della Corte Giudicante della relativa Confederazione Continentale, ai rispettivi capoversi 33, 49, 69 e 70 ha affermato che la prostituzione deve essere considerata una fonte di reddito, che esiste la prostituzione consensuale e che spetta al giudice nazionale considerare se questa ha avuto condizione di lavoro subordinato od autonomo.

Sottolineo anche che il Codice d’Attività ATECO più congruo all’attività del meretricio dovrebbe essere quello: 96.09.09 “Altre attività di servizio per la persona non classificabili altrove”, oppure 74.90.99 “Altre attività professionali non classificabili altrove”.

La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 7206/2016 ha dichiarato inammissibile un ricorso presentato da un avvocato di una escort, poiché questo stesso testo era privo di riferimenti legali precisi, secondo i quali le stesse meretrici in Italia non possono pagare le tasse, tanto da poter smentire la decisione della relativa Commissione Tributaria Regionale, che ha dichiarato la medesima prostituta come un evasore fiscale. Difatti su quest’ultima accusa, dopo le già citate normative, le quali non sono un’invenzione, non sussistono più leggi e/o regolamenti che possano dichiarare ulteriormente il sesso a pagamento in Italia non tassabile.

La Suprema Corte Giudicante suddetta si è nuovamente espressa con la Pronuncia n. 15596/2016, con la quale è stata riconfermata la tassazione obbligatoria del meretricio nello Stato italiano, al pari di tutti i liberi professionisti.

La medesima Corte di Cassazione con la Sentenza n. 22413/2016 ha ribadito la tassabilità della prostituzione in Italia ed anche il fatto che quest’attività può essere unicamente esente IVA, se essa stessa viene esercita in via occasionale.

Anche la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 141/2019, ha confermato la citata tassazione.

Si riporta di seguito il testo delle Sentenze in merito della Cassazione e delle leggi fiscali succitate.

 

 

 

 

 

Corte di Cassazione, Sez. Trib., sentenza 1° ottobre 2010, n. 20528

 

Considerato quanto segue:

L’Agenzia delle Entrate - Ufficio locale di Morbegno in data 29 aprile 2002 notificava a A. M. M., nata il (Omissis) nella Repubblica Dominicana e residente in (Omissis), in conseguenza di contestatale omessa presentazione delle pertinenti dichiarazioni, avvisi di accertamento rispettivamente relativi:

a) al reddito imponibile IRPEF, CSSN e Tassa per l’Europa per l’anno 1996;

b) all’IVA dovuta per il medesimo anno;

c) al reddito imponibile IRPEF e CSSN per l’anno 1997;

d) all’IVA dovuta per il medesimo anno;

e) a reddito imponibile IRPEF ed IRAP per l’anno 1998 ed all’IVA dovuta per il medesimo anno e connessi rilievi.

 

Quale comune presupposto di questi vari atti accertativi veniva ascritta l’esercitata attività di ballerina in locali notturni "in modo professionale" e ciò sulla base di una constatata, sensibile differenza tra i versamenti eseguiti sui conti bancari ed il reddito di lavoro dipendente percepito presso quei luoghi di ritrovo, eccedenza che veniva contestato essere proveniente da redditi attinenti all’esercizio di arti e professioni, e quindi come tale recuperata a tassazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 2.

La destinataria, deducendo fra l’altro l’assenza di validi elementi di supporto della pretesa fiscale, impugnava gli avvisi avanti alla Commissione tributaria provinciale di Sondrio, la quale con sentenza del 22/9/2004, riuniti i ricorsi, in fatto evidenziava come l’A. avesse in sostanza documentato, a mezzo di dichiarazioni rilasciatele e degli assegni bancari poi confluiti sui conti di deposito, la loro effettuata emissione da parte di soggetti in nessun modo implicati con la gestione di locali di ritrovo e spettacolo in cui quella avesse svolto l’attività di ballerina, e costituenti invece elargizioni e donativi occorsi in rapporto a varie frequentazioni amicali e relazioni nel tempo intrattenute con terzi.

Ciò premesso, la Commissione adita ne deduceva che "lo stile di vita disinibito e licenzioso ... per procurarsi i mezzi finanziari per vivere non può essere fiscalmente perseguito", essendo "i compensi per attività di prostituzione non ... soggetti a tassazione", ed accoglieva di conseguenza i ricorsi, con spese compensate. Avverso la sentenza proponeva appello l’Ufficio suindicato con atto notificato il 14 dicembre 2004 affermando di non avere invece affatto prospettato la qualificazione poi data dalla Commissione all’attività esplicata dalla A., ribadendo per parte propria di ritenere i redditi accertati derivanti da compensi non dichiarati e benché percepiti per l’attività di lavoro autonomo svolta come "ballerina professionista", peraltro assumendo che in alternativa l’attività per contro considerata dalla sentenza, qualora dimostrata, comporterebbe parimenti in quanto illecita, la tassazione dei proventi a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, commi 4 e 4 bis.

Si è costituita nel grado l’appellata A., tornando ad affermare di non aver mai svolto alcuna attività come ballerina libera professionista, avendo sempre e soltanto lavorato presso locali notturni di ritrovo come dipendente, e di avere ad ogni modo fornito prova dell’essere i depositi bancari costituiti con disponibilità non soggette ad altra imposizione fiscale, stante l’origine di cui s’è detto.

 

Il ricorso è fondato per quanto di ragione.

Anzitutto appare assai poco credibile che l’attività della A. consistesse esclusivamente nel servire ai tavoli i clienti dei vari locali dove assume di avere svolto tale servizio.

E ciò in quanto risulterebbe che tale funzione la stessa avrebbe svolto in diversi locali nello stesso giorno. Orbene è di tutta evidenza che tale funzione può essere svolta esclusivamente in un locale, specie se, come nel caso di specie, tali locali restano aperti sino alle prime luci del giorno dopo, e si basano oltre che nel servizio ai tavoli anche con spettacoli ed esibizioni canore.

Quanto poi all’esercizio dell’attività di prostituta, tale dovendosi qualificare in concreto l’attività della A., che ha coltivato nel tempo numerose relazioni tutte lautamente pagate, non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita.

Quanto poi alla risposta ad interrogazione parlamentare (del 31.07.1990) del Ministero delle Finanze secondo cui i proventi della prostituzione non sarebbero tassabili, tale affermazione non è certamente incidente per i giudici, trattandosi di una valutazione, peraltro risalente nel tempo, che non vincola in alcun modo i giudici tributari e, ovviamente, questa Corte.

Ne consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che provvederà anche alle spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

La Corte accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia anche per le spese del presente giudizio.

 

 

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

Sezione Tributaria

Sentenza 2 marzo – 13 maggio 2011, n. 10578

(Presidente D.A. - Relatore S.)

Svolgimento del processo

Con avviso di accertamento relativo ad IVA ed IRPEF per l'anno d'imposta del 1999, è stata contestata a M. A. Z. la mancata contabilizzazione e dichiarazione dei ricavi da lavoro autonomo, in aggiunta ai redditi da lavoro dipendente, da lei svolto presso alcuni locali notturni, quale ballerina. La CTP di Sondrio ha accolto il ricorso della contribuente e l'appello dell'Ufficio e stato rigettato dalla CTR della Lombardia, con sentenza n. 35/31/05, depositata il 31.3.2006, sul rilievo che competeva all'Amministrazione finanziaria di provare la ricorrenza dell'attività lavorativa autonoma, prova che non poteva esser desunta dagli accrediti annoiati nei conti correnti della contribuente, la quale aveva, ad ogni modo, giustificato la percezione del denaro in riferimento a rapporti amicali o sentimentali, da lei intrattenuti. La CTR ha, inoltre, affermato che i proventi derivanti dall'esercizio della prostituzione non costituiscono reddito assoggettabile a tassazione.

Per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso l'Agenzia delle Entrate, sulla scorta di due motivi, cui l'intimata resiste, con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, l'Agenzia delle Entrate, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32, 38 e 39, nonché del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, afferma che la ripresa a tassazione è avvenuta in base agli accertamenti dalla Guardia di Finanza, da cui era emerso un notevole divano tra le retribuzioni da lavoro dipendente della contribuente ed i versamenti dalla stessa effettuati sui propri conti correnti, versamenti che dovevano considerarsi ricavi, in assenza di prova contraria da parte della stessa. La ricorrente sottopone, dunque, alla Corte il seguente quesito di diritto: "se, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, i singoli dati ed elementi risultanti dai conti correnti bancari, dei quali il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione, possono essere ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile".

Col secondo motivo, l'Agenzia, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 1, 3 e 6 e della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, afferma che la sentenza non ha considerato che, in base a tali disposizioni, ogni corrispettivo, anche derivante da attività illecite, concorre a formare l'imponibile e formula il seguente quesito di diritto: "se, ai sensi delle disposizioni del TUIR e della L. n. 537 del 1993, artt. 14, 4, qualsivoglia corrispettivo, percepito a qualsiasi titolo, ove non espressamente escluso, contribuisce a formare il reddito complessivo del contribuente, sul quale si deve determinare l'imposta dovuta".

Procedendo alla valutazione congiunta dei motivi, tra loro connessi, va, anzitutto, disattesa l'eccezione d'inammissibilità del secondo motivo, sollevata dalla controricorrente per supposta violazione dell'art. 366 c.p.c. per essere il "thema decidendum" pienamente individuabile, nonostante i refusi dattilografici su cui si basa l'eccezione.

Nel merito, i motivi sono fondati. In tema d'accertamento dell'imposta sui redditi, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 18081 del 2010; n. 7766 del 2008) ha, già, affermato il principio, che qui si condivide, secondo cui, quando l'accertamento, effettuato dall'ufficio finanziario, si fonda su verifiche di conti correnti bancari, l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, e si determina un'inversione dell'onere della prova, a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili. Questa Corte ha, inoltre, precisato (Cass. n. 18111/2009; n. 9573/2007), con indirizzo al quale si intende dare continuità, che quando sussistono flussi finanziari che non trovano corrispondenza nella dichiarazione dei redditi, il recupero fiscale non è subordinato alla prova preventiva che il contribuente eserciti una specifica attività; in assenza di contestazione sulla legittimità dell'acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i dati medesimi possono, infatti, essere utilizzati sia per dimostrare l'esistenza di un'eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito ricavato da tale attività, incombendo al contribuente l'onere di dimostrare che i movimenti bancari, che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni, non sono fiscalmente rilevanti.

Tale principio non soffre eccezioni se il reddito da assoggettare a tassazione costituisca provento di "tatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo" tenuto conto del disposto di cui al D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34 - bis, (inserito dalla L. n. 248 del 2006, art. 1, di conversione) secondo il quale "in deroga alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, la disposizione di cui della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi".

Con tale disposizione, alla quale va attribuita efficacia retroattiva (Cass. n. 13213/2007, n. 18111/2009, n. 37/2010), per esser stata emanata in espressa deroga al principio di irretroattività delle disposizioni tributarie, sancito dalla L. n. 212 del 2000, art. 3, è stato introdotto nell'ordinamento il principio, di carattere generale, della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, a prescindere dalla loro provenienza, e, dunque, dalla sussumibilità della relativa fonte in una delle specifiche categorie reddituali di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, essendo normativamente considerati, in via residuale, come redditi diversi, da ascriversi, appunto, alla lettera f) di detto art. 6.

Ne consegue che il reddito tratto dalla controricorrente dall'esercizio dell'attività di prostituzione - tale natura va riconosciuta a quello derivante "da donativi e regali relativi a rapporti di natura "affettuosa", secondo l'accertamento contenuto nell'impugnata sentenza - va assoggettato all'imposta diretta, dovendo condividersi l'orientamento espresso da questa Corte, con la sentenza n. 20528/2010 - emessa, proprio, nei confronti della controricorrente per gli anni d'imposta 1996, 1997 e 1998 -, secondo cui la risposta del Ministero delle Finanze all'interrogazione parlamentare (del 31.7.1990), invocata dalla contribuente, risalente a tempo antecedente l'emanazione delle disposizioni legislative, sopra menzionate, non vincola, in alcun modo, i giudici tributari e, ovviamente, questa Corte nell'interpretazione delle disposizioni normative applicabili al caso in esame. Deve, dunque, affermarsi il principio secondo cui i singoli dati ed elementi risultanti dai conti correnti bancari vanno ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, se il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione, a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività, e dalla natura lecita o illecita dell'attività stessa.

La natura dell'attività svolta è rilevante, invece, ai fini dell'IVA, che, in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 1 "si applica sulle cessioni dei beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio d'imprese o nell'esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuale". In base al D.P.R. n. 633, art. 3, comma 1, in esame, "costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratto d'opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, non fare e di permettere quale ne sia la fonte"; laddove il successivo art. 5, comma 1, specifica che "per esercizio di arti e professioni si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l'esercizio in forma associata delle attività stesse".

A tale stregua, deve affermarsi l'assoggettabilità ad IVA dell'attività di prostituzione, quando sia autonomamente svolta dal prestatore, con carattere di abitualità: seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo, l'attività predetta non costituisce reato, e consiste, appunto, in una prestazione di servizio verso corrispettivo, inquadrabile nell'ampia previsione contenuta nel secondo periodo del citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 1. La qualificazione della prostituzione in termini di "prestazione di servizi retribuita" risulta, peraltro, già, affermata dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza n. 268 del 20.11.2001, in causa C-268/99, in cui la Corte muovendo dalla giurisprudenza, costante, secondo la quale una prestazione di lavoro subordinato o una prestazione di servizi retribuita dev'essere considerata come attività economica ai sensi dell'art. 2 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 2 CE), purché le attività esercitate siano reali ed effettive e non tali da presentarsi come puramente marginali e accessorie, ha affermato che "la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita", che rientra nella nozione di "attività economiche", demandando al giudice nazionale di "accertare in ciascun caso, alla luce degli elementi di prova che gli sono forniti, se sussistono le condizioni che consentono di ritenere che la prostituzione sia svolta come lavoro autonomo, ossia: senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità, e a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente".

Posto, dunque, che i proventi tratti dalla controricorrente, dall'attività di prostituzione, quale accertata dal giudice del merito, vanno assoggettati ad IVA, deve, qui, ribadirsi in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, quanto sopra si è esposto per l'omologo D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in tema d'imposta sul reddito, e, cioè, che (Cass. n. 8041/2008; 4589/2009, 18081/2010), in presenza di accertamenti bancari, condotti ex art. 51 cit. è onere del contribuente dimostrare che i proventi desumibili dalla movimentazione bancaria non debbono essere recuperati a tassazione o perché egli ne ha già tenuto conto nelle dichiarazioni o perché (cfr. pure Cass. n. 9573/2007, n. 1739/07, n. 28324/07) non sono fiscalmente rilevanti, in quanto non si riferiscono ad operazioni imponibili.

L'impugnata sentenza, che non si è attenuta ai predetti principi, va cassata ed, in assenza di ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, col rigetto del ricorso della contribuente.

Si ravvisano giusti motivi, in considerazione della novità delle questioni affrontate, per compensare tra le parti le spese dell'intero giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa e decidendo nel merito, rigetta il ricorso della contribuente. Compensa le spese del giudizio.

 

 

 

Cassazione Civile Ord. Sez. 6 Num. 18030 Anno 2013

Presidente: C. M. - Relatore: D. B. A.

Data pubblicazione: 24/07/2013

 

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

C. S., rappresentata e difesa, giusta delega a margine del ricorso, dall'Avvocato C. C., elettivamente domiciliata in (Omissis), nel relativo studio RICORRENTE CONTRO AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, nei cui Uffici,in (Omissis) è domiciliata, CONTRORI CORRENTE AVVERSO la sentenza n.109/10/2010 della Commissione Tributaria Regionale di Roma - Sezione n. 10, in data 25.03.2010, depositata il 03 maggio 2010; Udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del 26 Giugno 2013, dal Relatore Dott. A. D. B.; Presente il P.M. dott.ssa I. Z. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO e MOTIVI DELLA DECISIONE Nel ricorso iscritto a R.G. n.3265/2011 è stata depositata in cancelleria la seguente relazione: Viene impugnata la decisione n. 109/10/2010, della CTR di Roma Sezione n.10 in data 25.03.2010, DEPOSITATA il 03 maggio 2010. Con tale decisione la CTR, ha accolto l'appello dell'Agenzia Entrate e dichiarato fondata la pretesa fiscale.

2 - Con il ricorso di che trattasi, che riguarda impugnazione di accertamenti, relativa ad IRPEF degli anni 2002, 2003 e 2004, la contribuente ha chiesto la Cassazione della decisione impugnata, sulla base di due mezzi.

3 - L'intimata Agenzia, giusto controricorso, ha chiesto che l'impugnazione venga dichiarata inammissibile e, comunque, rigettata.

4 - Le questioni poste dal ricorso, sembra possano essere esaminate e risolte, tenendo conto di quanto affermato da questa Corte, in pregresse pronunce. Muovendo dalla sentenza della Corte di Giustizia n.268 del 20.11.2001, che ha affermato che "la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita" è stato anche recentemente precisato (Cass. n.10578/2011) che i comuni principi in tema di accertamento dei redditi attraverso i dati bancari si applicano anche quando il reddito da assoggettare a tassazione costituisca provento di fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo e che, in coerenza, il reddito derivante dall'esercizio della prostituzione, in base al generale principio della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, introdotto dall'art.36 comma 34 bis del DL n.223/2006, è sussumibile sotto l'art.6 lett. f) del Tuir e soggetto ad imposizione diretta.

E' stato, pure, affermato che, sotto altro profilo, che in tema di accertamento dei redditi, la disponibilità dei beni previsti dall'art.2 del dpr n.600 del 1973, costituisce "una presunzione di capacità contributiva da qualificare <legale> ai sensi dell'art.2728 cod.civ., perché è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto certo di tale disponibilità la esistenza di una capacità contributiva", di tal chè "il Giudice Tributario, una volta accertata l'effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall'ufficio, non ha il potere di togliere a tali elementi la capacità presuntiva contributiva che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma" (Cass. n.19252/05, n.14161/2003, n.12731/2002, n.11611/2001).

L'impugnata decisione sembra in linea con i richiamati principi, avendo, pure, evidenziato che contribuente, sulla quale gravava il relativo onere, non aveva offerto alcuna prova, sottesa a dimostrare che il reddito effettivo dalla stessa prodotto, doveva ritenersi diverso ed inferiore a quello scaturente dalle applicate presunzioni.

4 bis - Sotto altro profilo, avuto riguardo alla ratio, alla statuizione dell'impugnata sentenza ed ai principi innanzi richiamati, le censure non appaiono meritevoli di accoglimento, sia in considerazione del fatto che il ricorrente per cassazione "deve rappresentare i fatti, sostanziali e processuali, in modo da far intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza senza dover ricorrere al contenuto di altri atti del processo"(Cass. n.15672/05; 19756/05, n.20454/2005, SS.UU. 1513/1998) e, quindi, deve indicare specificamente le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione, nonché i vizi logici e giuridici della motivazione (Cass. n.11462/2004, n.2090/2004, n.1170/2004, n.842/2002), sia pure perché, in ipotesi, essendo la statuizione conforme a diritto trova applicazione l'ultimo comma dell'art.384 cpc.

5 - Si ritiene, dunque, sussistano i presupposti per la trattazione del ricorso in Camera di Consiglio e la definizione, proponendosene il rigetto, per manifesta infondatezza, ai sensi degli artt.375 e 380 bis cpc. Il Consigliere relatore Antonino Di Blasi La Corte, Vista la relazione, il ricorso, il controricorso e gli altri atti di causa; Considerato che alla stregua dei principi richiamati in relazione, che il Collegio condivide, il ricorso va rigettato, non inducendo a diverso opinamento le difese della contribuente, svolte, da ultimo, con la memoria 18.06.2013; Considerato, altresì, che, avuto riguardo al diverso esito nelle fasi di merito ed all'epoca del consolidarsi degli applicati principi, le spese del giudizio vanno compensate; Visti gli artt. 360 e 380 bis cpc;

P.Q.M.

rigetta il ricorso e compensa le spese.

 

Così deciso in Roma il 26 Giugno 2013.

 

 

 

 

Civile Sent. Sez. 5 Num. 7206 Anno 2016

Presidente: DI AMATO SERGIO

Relatore: LA TORRE MARIA ENZA

Data pubblicazione: 13/04/2016

SENTENZA

sul ricorso 1108-2009 proposto da:

B. M., domiciliata in (omissis) presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall'Avvocato M. D. G., giusta delega in calce;

- ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA (omissis), presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 87/2008 della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositata il 16/10/2008; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2015 dal Consigliere Dott. M. E. L. T.; udito per il controricorrente l'Avvocato M. che si riporta agli atti; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. T. B. che ha concluso per l'inammissibilità in subordine rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

M. B. ricorre contro l'Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (n. 87/34/08 dep. 16 ottobre 2008), ha confermato la rettifica del reddito (ai fini dell'Irpef anno 2001), in considerazione dell'incremento patrimoniale rappresentato da due atti di acquisto di immobili (registrati in Milano nell'anno 2004, del valore di E. 316.829,09). L'Ufficio, ritenendo tali incrementi patrimoniali dimostrativi di una non dichiarata capacità contributiva della B. - che non aveva presentato dichiarazione dei redditi per gli anni d'imposta oggetto di controllo e non aveva risposto alle richieste di chiarimenti dell'Ufficio - ne aveva spalmato il valore nell'anno dell'acquisto e nei cinque precedenti, secondo il disposto dell'articolo 38, quinto comma, d.P.R. 600/73, nel testo applicabile ratione temporis. La Commissione Tributaria Regionale, confermando la decisione della Commissione tributaria provinciale di Lecco, ha respinto l'appello, disattendendo le contestazioni mosse dalla contribuente per l'annullamento dell'avviso di accertamento (relative alla mancata indicazione nell'atto impugnato della categoria di reddito, ritenuto non tassabile in quanto provento dell'attività di prostituzione, per il quale non sussiste l'obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi).

Il ricorso si articola in due motivi. L'Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo si deduce violazione di legge, stante la non tassabilità dei proventi derivanti dall'attività di prostituzione (ex art. 6 TUIR), costituendo tali proventi risarcimento del danno, come tale non assoggettabile a tassazione. Rileva la ricorrente l’impossibilità di provare il minor reddito percepito rispetto a quello accertato, data la mancata tenuta di contabilità, con conseguente lesione delle norme costituzionali e di uguaglianza fra i cittadini, chiedendo la rimessione degli atti alla Corte costituzionale (per violazione dell'art. 53 cost. da parte del DM 10.9.92 in contrasto con la legge 212/2000). Invoca l'illegittimità delle sanzioni per omessa dichiarazione, in mancanza di specifica disposizione che preveda un regime fiscale per l'attività di prostituzione.

2. Col secondo motivo si deduce omessa motivazione su un fatto decisivo, consistente nella doglianza sul mancato inquadramento del reddito prodotto in una delle categorie previste dalla legge nonché sul criterio seguito ai fini del calcolo dell'imponibile, lamentando in particolare che la CTR abbia qualificato "anomala" l'attività svolta invece che forma di risarcimento del danno. Si contesta inoltre il calcolo effettuato in via meramente presuntiva, e su cui la CTR si è limitata a confermare la decisione di primo grado, senza motivare sulla dedotta impossibilità di "controllare l'esatta applicazione dell'imponibile".

3. Gli anzidetti motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, sono soggetti ad una comune declaratoria di inammissibilità, per mancata formulazione del quesito di diritto e del momento di sintesi, ex art. 366 bis c.p.c., cui la causa soggiace in relazione alla suindicata data di deposito della sentenza. In ossequio a tale disciplina ciascuna censura deve, all'esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, con riferimento alla deduzione di violazione di legge; ovvero, con riferimento alla omessa motivazione, contenere un "momento di sintesi", omologo al quesito di diritto, contenente la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa, contraddittoria o insufficiente, nonché le ragioni per le quali la motivazione debba considerarsi inidonea a giustificare la decisione di appello (cfr., ex plurimis, Cass. 8997/08; n. 2652/08; Cass. S.U. 11652/08; n. 16528/08; n. 12421/10).

4. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in € 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione quinta civile della Corte Suprema di cassazione.

 

 

 

 

 

 

 

SENTENZA CASSAZIONE CIVILE Sez. 5 Num. 15596 Anno 2016

Presidente: C. A.

Relatore: L. G.

Data pubblicazione: 27/07/2016

 

sul ricorso 14354-2012 proposto da: B. M., elettivamente domiciliata in ROMA (omissis), presso lo studio dell'avvocato A. B. V., che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato E. P. giusta delega in calce;

- ricorrente -

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE

in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA (omissis), presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende; avverso la sentenza n. 45/2011 della COMM.TRIB.REG. TOSCANA depositata il 19/04/2011; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/06/2016 dal Consigliere Dott. G. L.; udito per il ricorrente l'Avvocato P. che ha chiesto l'accoglimento; udito per il controricorrente l'Avvocato B. che ha chiesto il rigetto; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. R. S. che ha concluso per il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

La Guardia di Finanza eseguiva una verifica fiscale nei confronti di B. M., che, pur non avendo mai presentato dichiarazione dei redditi (tranne che per l'annualità 2003), risultava intestataria di numerose autovetture anche di lusso, acquirente di un appartamento, titolare di vari contratti di locazione immobiliare; inoltre, dagli accertamenti bancari effettuati, B. M. risultava intestataria di dieci conti correnti attivi e di gestioni patrimoniali. Sulla base degli accertamenti effettuati, con particolare riguardo ai dati relativi ai versamenti sui conti correnti bancari, l'Agenzia delle Entrate emetteva avviso di accertamento per l'anno di imposta 2004 con il quale recuperava a tassazione ai fini Irpef un reddito imponibile di euro 29.240. Contro l'avviso di accertamento B. M. proponeva ricorso sostenendo la non tassabilità dei redditi accertati in quanto provento dell'attività di prostituzione dalla stessa esercitata.

La Commissione tributaria provinciale di Firenze con sentenza n.127 del 2008 accoglieva parzialmente il ricorso: riconosceva rilevanza reddituale ai proventi dell'attività di meretricio, ma riteneva che essi fossero soltanto quelli risultanti dai versamenti sui conti correnti effettuati in contanti, escludendo quelli effettuati mediante assegni.

L'Agenzia delle Entrate proponeva appello e B. M. si costituiva proponendo a propria volta appello incidentale. Con sentenza n.45 del 19.4.2011 la Commissione tributaria regionale di Firenze accoglieva l'appello principale della Agenzia delle Entrate e rigettava l'appello incidentale della contribuente. Il giudice di appello confermava che i proventi dell'attività di prostituzione dovevano essere compresi nella categoria residuale dei "redditi diversi" quale prestazione volontaria di un servizio dietro corrispettivo; riteneva corretta la rettifica del reddito effettuata dall'Ufficio a norma dell'art.38 d.P.R. 29 settembre 1973 n.602, con richiamo all'art.39 ai soli fini della indicazione della metodologia di accertamento, senza che questo significasse contestazione di un reddito di impresa.

Avverso la sentenza di appello B. M. propone ricorso principale per i seguenti motivi:1) violazione e falsa applicazione dell'art.38 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600 e 6 d.P.R. 22 dicembre 1986 n.917 in relazione all'art.360 comma primo n.3 cod.proc.civ. nella parte in cui ha ritenuto che i proventi della prostituzione sono assoggettabili ad imposizione diretta, sia perché non esiste una norma tributaria che ne preveda l'imposizione, sia perché non sono qualificabili come proventi illeciti; 2) omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ai sensi dell'art.360 primo comma n.5 cod.proc.civ. con riguardo alla indicazione della norma per la quale si è proceduto all'accertamento e conseguentemente al metodo applicato, in relazione all'art.360 primo comma n.3 e 5 cod.proc.civ. 3)omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ai sensi dell'art.360 primo comma n.5 cod.proc.civ. con riguardo alla qualificazione dei presunti redditi accertati, in relazione all'art.360 primo comma n.5 cod.proc.civ. avendo omesso qualsiasi motivazione in ordine alla sollevata problematica sulla "occasionalità della prestazione" 4) violazione e falsa applicazione dell'art.38 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, in relazione all'art.360 primo comma n.3 cod.proc.civ., nella parte in cui non ha ritenuto rilevante l'individuazione della categoria reddituale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo è infondato. Il Testo Unico delle imposte sui redditi non contiene una definizione unitaria del concetto di "reddito", ma prevede varie categorie reddituali, il cui elemento comune è costituito dalla derivazione del reddito da una fonte produttiva. La categoria dei redditi elencata dall'art.6 del d.P.R. 29 settembre 1973 n.602 è stata ampliata dall'art.14 comma 4 della legge 24.12.1993 n.537, secondo cui i proventi derivanti da illecito civile, penale o amministrativo (che non siano già stati interamente sottratti al possessore a mezzo di provvedimento di sequestro o confisca penale) sono sottoposti a tassazione in quanto classificabili in una delle categorie reddituali previste dal citato art.6; l'art.36 comma 34 bis del d.l. n.223 del 2006, convertito nella legge n.248 del 2006, con norma di interpretazione autentica espressamente emanata in deroga al principio di irretroattività delle norme tributarie previsto dall'art.3 della legge 212 del 2000, ha stabilito che i proventi illeciti indicati dall'art.14 comma 4 "sono considerati comunque come redditi diversi".

La natura reddituale attribuita ex lege ai proventi delle attività illecite, con la conseguente tassabilità quali "redditi diversi", comporta, a maggior ragione, che venga riconosciuta natura reddituale all'attività di prostituzione, di per sé priva di profili di illiceità (costituendo invece illecito penale ogni attività di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione altrui a norma dell'art.3 della legge 20.2.1958 n.75), attività parzialmente tutelata dallo stesso ordinamento civile che comprende la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria della obbligazione naturale, la quale, se non consente il diritto di azione, attribuisce alla persona che ha svolto l'attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione (art.2035 cod.civ.). La tassabilità dei proventi dell'attività di prostituzione è stata avallata a livello comunitario dalla Corte di giustizia delle Comunità Europee con la sentenza del 20.11.2001, causa C-268/99, in cui ha affermato che « la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita la quale rientra nella nozione di attività economiche», e che «spetta al giudice nazionale accertare , caso per caso, se sussistono le condizioni per ritenere che la prostituzione sia svolto come lavoro autonomo», ossia al di fuori di fenomeni di induzione , costrizione o sfruttamento della prostituzione altrui. (i cui proventi, prima ancora che assoggettabili ad imposta, sono interamente confiscabili quali provento di reato a norma dell'art.240 comma 1 cod.pen.). Nel caso in esame il giudice di merito ha accertato che la contribuente (per sua stessa dichiarazione) svolgeva liberamente ed autonomamente l'attività di prostituzione, dalla quale erano derivati i proventi risultanti dai conti correnti bancari, con conseguente imponibilità degli stessi, trattandosi di attività assimilabile al lavoro autonomo se svolto in forma abituale, ovvero rientrante nella categoria dei "redditi diversi" ai sensi dell'art.6 lett.f) e 67 lett.1) D.P.R. 22 dicembre 1986 n.917, se svolta, sempre autonomamente, ma in forma occasionale. (nel senso della tassabilità dei proventi della prostituzione, Sez.5 n. 2528 del 2010; Sez. 5, Sentenza n. 10578 del 13/05/2011, Rv. 618085).

2. Il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui censura direttamente la motivazione contenuta nell'avviso di accertamento; è infondato nella parte in cui censura per difetto di motivazione la sentenza impugnata, la quale ha correttamente osservato che alla contribuente non è stato contestato un reddito di impresa, ma è stato contestato un maggior reddito della persona fisica a norma dell'art.38 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, collocato nella categoria residuale dei "redditi diversi" ed accertato mediante utilizzo della metodologia presuntiva ammessa dall'art.39 richiamato dall'art.38 comma 3 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600.

3. Il terzo motivo è inammissibile poiché non attiene ad un punto decisivo della controversia, atteso che: l'esercizio della attività di prostituzione, abituale o occasionale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef, trattandosi, nel primo caso, di redditi assimilabili al lavoro autonomo, e, nel secondo caso, di redditi rientranti nella categoria residuale dei redditi diversi previsti dall'art.6 comma 1 lett.f) d.P.R. 22 dicembre 1986 n.917; il requisito della abitualità è invece rilevante ai diversi fini dell'assoggettamento dei proventi dell'attività di prostituzione anche alla imposizione indiretta (Iva) ai sensi dell'art.5 d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633 (sul punto si veda la citata sentenza n. 10578 del 13/05/2011).

4. Il quarto motivo è inammissibile nella parte in cui svolge censure attinenti direttamente ad una asserita illegittimità della motivazione degli avvisi di accertamento; è infondato con riferimento alle censure mosse alla sentenza nella parte in cui ha ritenuto legittimo l'operato dell'Ufficio che ha rettificato il reddito della persona fisica ai sensi dell'art.38 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, sulla base dei dati risultati dai versamenti sui conti correnti bancari, costituenti presunzione legale relativa di maggior reddito.

La ricorrente deve essere condannata al rimborso delle spese in favore della Agenzia delle Entrate, liquidate in euro millecinquecento oltre eventuali spese prenotate a debito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della Agenzia delle Entrate, liquidate in euro millecinquecento oltre eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso il 16.6.2016.

 

 

 

 

 

Civile Sent. Sez. 5 Num. 22413 Anno 2016

Presidente: C. A.

Relatore: L. G.

Data pubblicazione: 04/11/2016

 

 

SENTENZA

sul ricorso 5894-2010 proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in (Omissis), presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

- ricorrente -

contro

B. M., elettivamente domiciliata in (omissis), presso lo studio dell'avvocato A. B. V., che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato E. P. giusta delega in atti;

- controricorrente -

sul ricorso 6241-2010 proposto da: B. M., elettivamente domiciliata in (omissis), presso lo studio dell'avvocato A. B., rappresentata e difesa dall'avvocato E. P. giusta delega in calce;

- ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in (omissis) presso l'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 3/2008 della COMM.TRIB.REG. TOSCANA, depositata il 22/01/2009; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/06/2016 dal Consigliere Dott. G. L.; udito per il ricorrente r.g. n. 5894/10 l'Avvocato B. che ha chiesto l'accoglimento; udito per il controricorrente l'Avvocato P. che ha chiesto il rigetto; udito per il ricorrente r.g. n. 6241/10 l'Avvocato P. che ha chiesto l'accoglimento; udito per il controricorrente l'Avvocato B. che ha chiesto il rigetto; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. R. S. che ha concluso per il n. r.g. 5894/10 l'accoglimento del ricorso, per il n. r.g. 6241/10 il rigetto del ricorso. N.R.G.5894/201+6241/10

RITENUTO IN FATTO

L'Agenzia delle Entrate eseguiva una verifica nei confronti di B. M., che, pur non avendo mai presentato dichiarazione dei redditi (tranne che per l'annualità 2003), risultava intestataria di numerose autovetture anche di lusso, acquirente di un appartamento, titolare di vari contratti di locazione immobiliare; inoltre dagli accertamenti bancari eseguiti risultava intestataria di dieci conti correnti attivi e di gestioni patrimoniali. Sulla base dei versamenti rilevati dalle indagini bancarie, l'Agenzia delle Entrate emetteva avvisi di accertamento per gli anni di imposta dal 1996 al 2003 con i quali recuperava a tassazione, ai fini Irpef, redditi diversi per importi annuali varianti da euro 39.850 ad euro 97.997, oltre al reddito da fabbricati, l'unico denunciato dalla contribuente.

Contro gli avvisi di accertamento B.M. proponeva ricorso, sostenendo la non tassabilità dei redditi accertati in quanto provento dell'attività di prostituzione da lei esercitata.

La Commissione tributaria provinciale di Firenze con sentenza n.146 del 2006 accoglieva parzialmente il ricorso: riconosceva rilevanza reddituale ai proventi dell'attività di meretricio, ma riteneva che essi fossero soltanto quelli risultanti dai versamenti sui conti correnti effettuati in contanti, escludendo quelli effettuati mediante versamento di assegni. B. M. proponeva appello e l'Agenzia delle Entrate si costituiva proponendo appello incidentale. Con sentenza n.3 del 22.1.2009 la Commissione tributaria regionale di Firenze rigettava l'appello principale della contribuente, confermando che il reddito da meretricio non costituisce reddito esente o non imponibile e neppure provento da attività illecita, ma rientra tra i redditi diversi, tassabili a norma degli artt.6 e 67 lett.1) d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, derivanti da lavoro autonomo non esercitato abitualmente ovvero dalla assunzione di obblighi di fare o permettere; accoglieva parzialmente l'appello incidentale dell'Ufficio, qualificando come reddito tassabile, provento dell'attività di prostituzione, anche una parte dei versamenti in assegni tra i quali quelli emessi da tale S. S.; riteneva "giustificati", poiché non connessi con l'attività di prostituzione, i restanti versamenti in assegni, con particolare riguardo agli assegni emessi dalla società F.lli R., valorizzando la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà resa dall'amministratore unico della società, il quale riferiva di avere consegnato gli assegni ricevuti in pagamento dai clienti a B. M. perché li depositasse sul proprio conto correnti, restituendogli l'equivalente in contanti; riteneva valide le giustificazioni fornite da B. con riferimento agli assegni emessi con traenza B., Comune di Firenze e Sai assicurazioni.

Avverso la sentenza di appello l'Agenzia delle Entrate propone ricorso per i seguenti motivi:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 41 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 e 2697 cod.civ. in relazione all'art. 360 comma 1 n. 3 cod.proc.civ., con riguardo ai versamenti di assegni ritenuti giustificati ed in particolare degli assegni emessi dalla ditta F.lli R. e degli assegni con traenza B., Comune di Firenze e Sai Assicurazione;

2) violazione dell'art. 7 comma 4 decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 in relazione all'art. 360 n. 4 cod.proc.civ. nella parte in cui ha ammesso la prova costituita dalla dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà rilasciata dall'amministratore unico della F.lli R., in violazione del divieto di prova testimoniale nel processo tributario, ed ha conferito a tale atto valenza di prova piena anziché di prova indiziaria;

3) vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione nella parte in cui ha ritenuto giustificati i versamenti di assegni provenienti dalla ditta F.lli R., nonostante dagli accertamenti riportati nel processo verbale di constatazione non risultasse alcuna restituzione delle somme ricevute.

La contribuente resiste con controricorso. Contro la medesima sentenza anche B. M. propone ricorso per i seguenti motivi:

1) violazione e falsa applicazione di una norma di legge ai sensi dell'art. 360 comma primo n. 3 cod.proc.civ.;

2) omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ai sensi dell'art. 360 comma primo n. 5 cod.proc.civ. con riguardo alla indicazione della norma per la quale si è proceduto all'accertamento e conseguentemente al metodo applicato;

3)omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ai sensi dell'art. 360 primo comma n. 5 cod.proc.civ., nella parte in cui ha ricompreso i proventi della prostituzione una volta nell'attività di impresa, una volta nell'attività di lavoro autonomo; ha ritenuto occasionale l'attività di prostituzione svolta dalla contribuente e poi ha definito la stessa quale prostituta "di lusso" con clienti abituali;

4) violazione e falsa applicazione dell'art. 38 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, in relazione

all'art. 360 primo comma n.3 cod.proc.civ.

CONSIDERATO IN DIRITTO

A norma dell'art. 335 cod.proc.civ., si procede preliminarmente alla riunione dei ricorsi contro la medesima sentenza, separatamente proposti dall'Agenzia

delle Entrate e dalla contribuente.

A) II ricorso della Agenzia delle Entrate (n. 5894/2010), da qualificarsi ricorso principale in quanto notificato per primo, deve essere accolto nei termini di seguito indicati.

1.Il primo motivo è inammissibile per inidoneità del quesito. La ricorrente deduce il vizio di violazione di legge previsto dall'art. 360 primo comma n.3 cod.proc.civ., con riferimento agli articoli di legge indicati nella enunciazione del motivo, mentre nel quesito di diritto formula censure attinenti al diverso vizio di carenza di motivazione con riguardo alla genericità ed aspecificità delle giustificazioni fornite dalla contribuente. Deve pertanto applicarsi la regola secondo cui costituisce causa di inammissibilità del motivo di ricorso per Cassazione, ai sensi dell'art. 366 bis cod.proc.civ., l'erronea sussunzione del vizio che il ricorrente intende far valere in sede di legittimità nell'una o nell'altra delle fattispecie previste dall'art. 360 cod. proc. civ. (Sez. 3, Sentenza n. 21099 del 16/09/2013, Rv. 628624; Sez. 3, Sentenza n. 21165 del 17/09/2013, Rv. 628690).

2.Il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente, sono fondati.

In materia di utilizzabilità delle prove dichiarative nel processo tributario, questa Corte ha stabilito che, fermo restando il divieto di assunzione della prova testimoniale sancito dall'art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, anche al contribuente deve essere riconosciuta la facoltà di avvalersi di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale; tuttavia esse non possono costituire prova piena dei fatti affermati, ma hanno il valore probatorio più limitato "proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione", secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 18 del 2000. (Sez. 5, Sentenza n. 11785 del 14/05/2010, Rv. 612990; Sez. 5, Sentenza n. 8369 del 05/04/2013, Rv. 626308).

La sentenza impugnata si è discostata da tale regola di valutazione probatoria, omettendo di indicare quali siano gli ulteriori elementi idonei a conferire valenza di prova alle dichiarazioni extraprocessuali rese dall'amministratore della srl F.lli R. circa la causale dei versamenti effettuati sui conti della contribuente B., estranea alla società. Sussiste il vizio di carenza di motivazione nella parte in cui il giudice di appello recepisce acriticamente le dichiarazioni in oggetto, omettendo qualunque vaglio di attendibilità delle affermazioni dell'amministratore della società laddove

riconduce la cospicua movimentazione di denaro effettuata su conto intestato a soggetto estraneo alla società (B. M.) a meri rapporti di "gentilezza e disponibilità", e ad una non meglio precisata "impossibilità di negoziare presso il sistema bancario gli assegni ricevuti dalla clientela"; il giudice di appello omette di rispondere alle controdeduzioni svolte dall'Ufficio nell'appello incidentale in ordine alla assenza, nelle movimentazioni bancarie esaminate, di ogni traccia contabile della asserita retrocessione delle somme in contanti da parte di

B. in favore della società F.lli R.

In accoglimento del secondo e terzo motivo di ricorso della Agenzia delle Entrate, la sentenza deve essere cassata, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

B) Il ricorso incidentale della contribuente è infondato.

1. Il primo motivo è inammissibile, a norma dell'art. 366 bis cod.proc.civ., per inidoneità del quesito. La ricorrente deduce il vizio di violazione di legge senza specificare, nella enunciazione del motivo o nella formulazione del quesito, quale sia la norma o le norme di legge che assume violate dalla sentenza impugnata. Il quesito contiene una interrogazione astratta circa la natura reddituale o meno dei proventi dell'attività di prostituzione, che prescinde da qualunque collegamento con le concrete argomentazioni svolte sul punto nella sentenza impugnata. Il quesito è ulteriormente inammissibile perché irrilevante, nella parte in cui pone l'interrogativo circa la qualificazione dei proventi dell'attività di prostituzione quale "reddito di impresa", atteso che la sentenza impugnata, nella fattispecie concretamente esaminata, ha ricondotto i proventi della prostituzione esercitata dalla contribuente alla categoria dei "redditi diversi", assimilabili al reddito da lavoro autonomo. (sulla inammissibilità di quesiti di diritto di carattere generale ed astratto, Sez. U., Sentenza n. 26020 del 30/10/2008, Rv. 605378).

2. Il secondo motivo è infondato. Il giudice di appello ha correttamente rilevato che l'Ufficio ha proceduto all'accertamento d'ufficio ai sensi dell'art. 41 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 con riferimento alle annualità per le quali non è stata presentata denuncia dei redditi; con riferimento all'annualità per la quale è stata presentata dichiarazione, ha proceduto a norma dell'art. 38 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 riguardante la rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche, che espressamente richiama le metodologie previste dall'art.3 9 stesso d.P.R., tra le quali "l'utilizzo dei dati e delle notizie raccolti dall'ufficio nei modi previsti dall'art. 32” (nella specie accertamenti bancari).

3. Il terzo motivo è inammissibile poiché non attiene ad un punto decisivo della controversia. Il giudice di appello non ha qualificato i proventi dell'esercizio dell'attività di prostituzione quale "redditi di impresa", ma li ha qualificati ai sensi degli artt. 6 e 67 lett.1) del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 quali " redditi diversi derivanti dall'attività di lavoro autonomo non esercitata abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare". La pretesa contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui afferma che la contribuente svolgeva attività di prostituzione in forma occasionale pur avendo clienti abituali, è comunque circostanza irrilevante: l'esercizio della attività di prostituzione, occasionale o abituale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef, trattandosi in ogni caso di proventi rientranti nella categoria residuale dei redditi diversi prevista dall'art.6 comma 1 lett. f) d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917; il requisito della abitualità è rilevante ai diversi fini dell'assoggettamento dei proventi dell'attività di prostituzione anche alle imposta indirette (Iva) a norma dell'art. 5 d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633, secondo cui costituisce esercizio di arti o professioni, soggette all'Iva, l'esercizio per professione abituale di qualsiasi attività di lavoro autonomo (in tal senso Sez. 5, Sentenza n. 10578 del 13/05/2011, Rv. 618085).

4. Il quarto motivo è inammissibile per inidoneità del quesito formulato a norma dell’art. 366 bis cod.proc.civ.: nella prima parte non viene censurata la sentenza ma si pone un interrogativo sulle corrette modalità di motivazione degli atti impositivi; la seconda parte contiene un quesito circa la qualificazione dei proventi derivanti dall'attività di prostituzione svolta con abitualità, non pertinente al caso in esame posto che il giudice di merito ha ritenuto che la contribuente svolgesse attività di prostituzione in forma non abituale.

P.Q.M.

Riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso principale della Agenzia delle Entrate ed accoglie il secondo ed il terzo; cassa sul punto la

sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio, anche sulle spese, alla Commissione tributaria regionale della Toscana in diversa composizione. Rigetta il ricorso incidentale della contribuente.

Così deciso il 16.6.2016

Estensore

G. L.

Presidente

A. C.

 

 

 

 

 

 

 

 

Testo Unico Imposte sui Redditi - Decreto Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, articolo 6 comma 1:

“I singoli redditi sono classificati nelle seguenti categorie:

a) redditi fondiari;

b) redditi di capitale;

c) redditi di lavoro dipendente;

d) redditi di lavoro autonomo;

e) redditi di impresa;

f) redditi diversi.”

 

Legge 24 dicembre 1993, n. 537, articolo 14 comma 4: “Nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del Testo Unico delle Imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria. In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell'articolo 331 del codice di procedura penale per qualsiasi reato da cui possa derivare un provento o vantaggio illecito, anche indiretto, le competenti autorità inquirenti ne danno immediatamente notizia all'Agenzia delle Entrate, affinché proceda al conseguente accertamento

 

Legge 4 agosto 2006, n. 248 articolo 36 comma 34 bis: “In deroga all'articolo 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, la disposizione di cui al comma 4 dell'articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi.”

 

 

 

 

Scritto il 13 ottobre 2010 e modificato il 13 giugno 2019

 

 

 

 

Back