PROVVEDIMENTI
AMMINISTRATIVI E RELATIVE SANZIONI
Con la Sentenza n. 9591 del 2006, le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione hanno posto un preciso dettame giurisprudenziale sulla
scadenza perentoria (= non prorogabile) del documento confirmatorio della
corrispondente sanzione amministrativa come quello dell’Ordinanza-Ingiunzione.
Secondo il succitato organo giudicante supremo, il dichiarato documento può
benissimo essere inviato oltre i novanta
giorni, previsti dall'articolo 2
della Legge 241 del 1990, poiché i dettami di quest'ultima non sono
intrinsechi alla disciplina sanzionatoria prevista dalla Legge 689 del 1981 sulle sanzioni amministrative, la quale all'articolo 28 prevede che il connesso
procedimento venga concluso non oltre cinque
anni dall'inizio in merito.
Però, nel 2013 il Consiglio di Stato,
Giudice supremo della Giustizia Amministrativa, con la Sentenza n. 542 (richiamata nella
propria successiva pronuncia n.
4113/2013), trattando un procedimento legato al diritto bancario, con una
sanzione emanata dalla Banca d'Italia ad un altro istituto di credito e citando
la suddetta pronuncia della Cassazione a
Sezioni Unite, ha ribaltato la relativa giurisprudenza, affermando
che: "Ritiene infatti il Collegio
che è proprio la natura del provvedimento sanzionatorio a suggerire la
soluzione nel senso della necessaria perentorietà del termine per provvedere,
attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e
l’effettività del diritto di difesa, avente come è noto protezione
costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Non par
dubbio, infatti, che consentire l’adozione del provvedimento finale entro il
lungo termine prescrizionale (cinque anni, in base all’art. 28 della legge 689
del 1981 anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per l’adozione
dell’atto, equivarrebbe ad esporre l’incolpato ad un potere sanzionatorio di
fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto
adeguati strumenti di difesa".
Quindi grazie ad una nuova
interpretazione di una suprema Corte Giudicante, basata su principi
costituzionali, per emanare regolarmente un’Ordinanza–Ingiunzione di pagamento,
la connessa Autorità dovrebbe almeno rispettare il termine di novanta giorni nella rispettiva
emissione protocollare, a partire dalla ricezione della tesi difensiva del
connesso trasgressore (art. 18 Legge
689/1981), al fine di permettere a quest’ultimo una concreta azione di
difesa in merito.
In altre parole, visto e
considerato che la stessa Sentenza
del Consiglio di Stato 542 del 2013 afferma che le applicazioni
delle Leggi 241/1990 e 689/1981 sono
distinte e l'ultima detta i principali paradigmi di scadenza per le sanzioni
amministrative, il termine suddetto dovrebbe essere preso in considerazione
unicamente con la data d'emanazione del relativo documento, ma non con quella
della consegna al rispettivo soggetto sanzionato, sulla quale gravano i dettami
della seconda legge succitata, ovvero il termine di scadenza di cinque anni.
Quindi, se si sta
aspettando il ricevimento dell'Ordinanza-Ingiunzione oltre il novantesimo giorno, dopo aver scritto,
inviato e riottenuto la ricevuta di ritorno della corrispondente tesi difensiva
per una sanzione, estranea alla violazione del Codice della Strada, non è detto
che il medesimo documento possa essere dichiarato nullo nella successiva
pratica del relativo ricorso, siccome la stessa Ordinanza-Ingiunzione di
pagamento potrebbe anche riportare una data di protocollo conforme al termine
amministrativo in questione (art. 2
Legge 241/1990) e di conseguenza in tale casualità, per essere sicuri di
non dover più pagare la disposizione in merito, bisognerà aspettare il
compimento del quinto anno dal
ricevimento della relativa tesi difensiva da parte della connessa Autorità.
Lo stesso identico
principio giurisprudenziale è stato confermato dallo stesso Organo
Giudicante Amministrativo con la Sentenza n. 1199/2016.
Si menzionano di seguito i
testi delle succitate pronunce.
N. 00542/2013REG.PROV.COLL.
N. 02879/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso
numero di registro generale 2879 del 2012, proposto dai signori R. G., A. C. e
M. M., rappresentati e difesi dagli avvocati S. V. e C. F., con domicilio
eletto presso lo studio legale (omissis);
contro
Banca
d'Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dagli avvocati S. C. e A. B., domiciliata in (omissis);
sul
ricorso numero di registro generale 2880 del 2012, proposto dal signor F. C.,
rappresentato e difeso dagli avvocati S. V. e C. F., con domicilio eletto
presso lo studio dell’avvocato S. V. in (omissis);
contro
Banca
d'Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e
difesa dagli avvocati A. B. e S. C., domiciliata presso i suoi uffici in (omissis);
sul
ricorso numero di registro generale 2881 del 2012, proposto dai signori G. C.,
C. C., R. D. L., R. F., A. G., G. P., S. R., V. S. D. C. L., E. V.,
rappresentati e difesi dagli avvocati C. F. e S. V., con domicilio eletto
presso lo studio dell’avvocato S. V. in (omissis);
contro
Banca
d'Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e
difesa dagli avvocati S. C. e A. B., domiciliata presso i suoi uffici in (omissis);
sul
ricorso numero di registro generale 2882 del 2012, proposto dalla Banca
Popolare di Sviluppo S.C. P.A., in persona del legale rappresentante pro
tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati S. V. e C. F., con domicilio
eletto presso lo studio legale (omissis);
contro
Banca
d'Italia, in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli
avvocati S. C. e A. B., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato S.
C. in (omissis);
per
la riforma
quanto
al ricorso n. 2879 del 2012:
della
sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione III n. 485/2012, resa tra le parti,
concernente irrogazione sanzione pecuniaria amministrativa
quanto
al ricorso n. 2880 del 2012:
della
sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione III n. 549/2012, resa tra le parti,
concernente irrogazione sanzione pecuniaria amministrativa
quanto
al ricorso n. 2881 del 2012:
della
sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione III n. 540/2012, resa tra le parti,
concernente irrogazione sanzione pecuniaria amministrativa
quanto
al ricorso n. 2882 del 2012:
della
sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione III n. 400/2012, resa tra le parti,
concernente irrogazione sanzione pecuniaria amministrativa
Visti
i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti
gli atti di costituzione in giudizio della Banca d'Italia;
Viste
le memorie difensive;
Visti
tutti gli atti della causa;
Relatore
nell'udienza pubblica del giorno 18 dicembre 2012 il consigliere di Stato G. C.
S. e uditi per le parti l’avvocato V. e l'avvocato C.;
Ritenuto
e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
e DIRITTO
1.-
Con le sentenze in epigrafe indicate il Tribunale amministrativo regionale del
Lazio ha respinto i ricorsi di primo grado degli odierni appellanti, proposti
avverso la deliberazione 3 dicembre 2010 n. 945 del Direttorio della Banca
d’Italia (nonché avverso gli atti connessi e presupposti), recante la
irrogazione, all’esito della procedura di cui all’art. 145 del testo unico in
materia bancaria, di sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti del
direttore generale della Banca popolare di sviluppo nonché, nominativamente,
nei confronti dei suoi amministratori e sindaci (in carica e, in parte qua,
cessati) in relazione a talune irregolarità riscontrate nella gestione
dell’attività bancaria e distintamente contestate agli odierni appellanti, con
particolare riferimento ad ipotesi di carenza istruttoria, di mancato
controllo, di scarsa trasparenza in sede di erogazione del credito ed “a
posizioni ad andamento anomalo e previsioni di perdite non segnalate all’organo
di vigilanza”.
Gli
appellanti tornano a proporre in questo grado i motivi di ricorso già disattesi
dal giudice di primo grado, insistendo in particolare nella censura di
violazione del termine di conclusione del procedimento irrogativo della
contestata sanzione pecuniaria, di difetto di istruttoria e di motivazione del
provvedimento conclusivo e, nel merito, rilevando l’insussistenza delle dedotte
irregolarità loro ascritte nel corso del procedimento. Concludono gli
appellanti per l’annullamento delle sanzioni, in accoglimento degli appelli e
dei ricorsi di primo grado ed in riforma delle impugnate sentenze.
Si è
costituita nei distinti giudizi la Banca d’Italia per resistere ai ricorsi e
chiederne la reiezione. La difesa dell’istituto appellato ha altresì sollevato,
in via di eccezione, una questione di costituzionalità della legge (v. l’ art.
133, lett. m), dell’all. 1 al d.lgs. n. 104 del 2010) attributiva al giudice
amministrativo della giurisdizione nella materia delle sanzioni irrogate dalla
Banca d’Italia, richiamando la recente sentenza della Corte costituzionale n.
162 del 2012 intervenuta nella omogenea materia delle sanzioni irrogate dalla
Consob.
All’udienza
del 18 dicembre 2012 i ricorsi sono stati trattenuti per la decisione.
2.-
Gli appelli, pur se diretti avverso distinte sentenze, possono essere riuniti
per essere definiti con un’unica decisione, riguardando la stessa fattispecie
fattuale e vertendo sulle stesse questioni di diritto.
Va
anzitutto considerata improponibile in questo grado di giudizio la questione di
giurisdizione sollevata in via di eccezione dalla difesa della Banca d’Italia.
La
questione è definitivamente preclusa in quanto coperta da giudicato implicito,
formatosi a seguito della sentenza del giudice di primo grado che, nel decidere
il merito della causa, ha con ciò ritenuto sussistente la giurisdizione del
giudice amministrativo a conoscere della controversia.
Tale
sentenza, in quanto non impugnata, né in via principale, né in via incidentale
sotto il profilo della giurisdizione, è divenuta per questa parte intangibile,
non essendo consentito, in grado d’appello, che la questione di giurisdizione
possa essere sollevata d’ufficio o essere esaminata in assenza di una specifica
impugnazione (art. 9 cod. proc. amm.).
Peraltro,
neppure un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della legge
che radica la giurisdizione amministrativa in materia di sanzioni della Banca
d’Italia, resa in accoglimento dell’incidente di costituzionalità sollevato in
altro giudizio, potrebbe sortire conseguenze di sorta nell’ambito della presente
controversia (in cui, per quanto si è detto, la questione è definitivamente
preclusa), dato che la normale applicabilità delle sentenze di accoglimento
della Corte costituzionale anche ai rapporti pendenti, desumibile dall’art.30
della legge n. 87 del 1953, incontra un limite nei rapporti giuridici esauriti
o coperti da giudicato.
2.1-
Nel merito, gli appelli sono fondati e vanno accolti nei sensi di cui appresso.
Come
si è ricordato in fatto, nei distinti ricorsi si ripropone preliminarmente la
questione, dedotta come specifico mezzo di censura avverso le sentenze
impugnate, della violazione da parte della Banca d’Italia del termine finale di
conclusione del procedimento sanzionatorio.
La
censura, comune ai distinti appelli e di carattere assorbente, appare
meritevole di favorevole esame.
Non è
contestato in fatto che il provvedimento del direttorio della Banca d’Italia 3
dicembre 2010 n. 945, irrogativo delle distinte sanzioni pecuniarie, sia stato
adottato dopo lo spirare del termine finale di duecentoquaranta giorni previsto
dal regolamento della Banca d’Italia del 25 giugno 2008 in relazione ai
procedimenti sanzionatori di cui all’art. 145 del d.lgs. 1° settembre 1993 n.
385 (recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).
Il
regolamento dianzi richiamato è tassativo nel delineare la scansione temporale
per l’adozione dell’atto finale nel rispetto del predetto termine cfr. l’elenco
allegato al regolamento – pag. 35 n. 124- richiamato dall’art. 7) prevedendo
espressamente, per i procedimenti sanzionatori relativi alle violazioni di cui
al citato art. 145 TUB, che il termine di duecentoquaranta giorni decorra dalla
scadenza del termine per la presentazione delle controdeduzioni da parte del
soggetto che ha ricevuto per ultimo la notifica della contestazione (cfr. il
citato allegato, nota n. 2 pag. 50).
Nel
caso di specie è il signor A. G., sindaco effettivo della Banca popolare di
sviluppo, ad aver ricevuto per ultimo la notifica dell’atto di contestazione
degli addebiti; detta notifica è stata effettuata nei confronti del sindaco
predetto il 18 febbraio 2010, nel domicilio eletto dall’interessato presso la
sede della banca.
Ai
sensi dell’art. 141 del cod. proc. civ. la notifica effettuata presso il
domiciliatario produce pienamente i suoi effetti, e nel caso in esame non è
contestato che detta notifica abbia avuto esito positivo, essendo avvenuta
nello studio professionale nelle mani del direttore generale dott. C.
Non
rileva, ai fini del decorso del predetto termine procedimentale, che la Banca
d’Italia abbia tuzioristicamente provveduto ad effettuare altra notifica
mediante l’ufficio postale (perfezionatasi il 22 febbraio 2010), atteso che,
essendo andata ad effetto la prima notificazione, è da quella data che va
correttamente computato il termine per la presentazione delle eventuali
controdeduzioni da parte del signor G. e, per conseguenza, è dalla scadenza di
detto termine che prende a decorrere l’ulteriore termine di duecentoquaranta
giorni per l’adozione, da parte della Banca d’Italia, del provvedimento
definitivo.
Il
termine per le controdeduzioni, fissato in trenta giorni, è stato prorogato di
ulteriori quindici giorni di guisa che, risalendo la prima effettiva
notificazione degli addebiti al 18 febbraio 2010, la sua scadenza è avvenuta il
4 aprile 2010.
Ne
consegue che, computando a decorrere da tale ultima data, il termine per
provvedere previsto dalla richiamata disposizione regolamentare è venuto a
scadenza il 30 novembre 2010; il provvedimento sanzionatorio, adottato soltanto
il 3 dicembre 2010, risulta dunque effettivamente tardivo.
2.2
Tanto acclarato in fatto, la questione giuridica controversa attiene alla
natura perentoria o meno del predetto termine ed alle conseguenze della sua
violazione sul provvedimento tardivamente adottato.
Le
sentenze impugnate hanno escluso la natura perentoria del termine, invece
riaffermata dagli appellanti.
Il Collegio
è consapevole che gli orientamenti giurisprudenziali in tema non sono sempre
univoci.
Secondo
un primo (ma minoritario) orientamento, il provvedimento irrogativo di una
sanzione amministrativa, purchè intervenuto nel termine prescrizionale di cinque
anni previsto dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981, non è ex se
illegittimo ove adottato in violazione del termine procedimentale per lo stesso
previsto, salvo che sia diversamente previsto (Cass. sez. lav., 17 giugno
2003 n. 9680).
La
tesi prevalente è tuttavia nel senso che, in materia di sanzioni
amministrative, il termine fissato per l’adozione del provvedimento finale
abbia natura perentoria, a prescindere da una espressa qualificazione in tali
termini nella legge o nel regolamento che lo preveda.
La giurisprudenza del giudice ordinario formatasi in
tema di sanzioni irrogate ai sensi della legge n. 689 del 1981 si è orientata
nel senso di ritenere perentorio il termine fissato dall’art. 18 all’autorità
competente per l’adozione della ordinanza-ingiunzione, dopo che le sezioni
unite della Corte di Cassazione (27 aprile 2006, n. 9591) hanno rilevato il
carattere perentorio o comunque la natura decadenziale del termine fissato
all’autorità amministrativa per l’adozione del provvedimento sanzionatorio
conclusivo.
Il Collegio non ha motivo di discostarsi da tale
condivisibile orientamento, tenuto conto della particolarità del procedimento
sanzionatorio rispetto al generale paradigma del procedimento amministrativo.
Ritiene infatti il Collegio che è proprio la natura
del provvedimento sanzionatorio a suggerire la soluzione nel senso della
necessaria perentorietà del termine per provvedere, attesa la stretta
correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del
diritto di difesa, avente come è noto protezione costituzionale (nel combinato
disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Non par dubbio, infatti, che consentire
l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale
(cinque anni, in base all’art. 28 della legge 689/81), anziché nel rispetto del
termine specificamente fissato per l’adozione dell’atto, equivarrebbe ad
esporre l’incolpato ad un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo
esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti
di difesa.
2.3 Va d’altra parte tenuta ben distinta la disciplina
generale del procedimento amministrativo (nell’ambito della quale alla
violazione del termine procedimentale ordinariamente fissato
all’Amministrazione non consegue l’invalidità dell’atto tardivamente adottato)
rispetto alla disciplina, per questa parte a carattere speciale, del
procedimento irrogativo di una sanzione amministrativa pecuniaria, il cui
paradigma normativo è ancora individuabile nella legge n. 689 del 1981.
Non impedisce di pervenire a questa conclusione il
carattere “universale” della legge generale sul procedimento amministrativo.
Per il principio di specialità, che prevale sul
principio ordinario di successione cronologica delle norme, le disposizioni
posteriori non comportano l’abrogazione delle precedenti, ove queste ultime
disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare.
E appunto in questo rapporto si pongono la L. 7
agosto 1990, n. 241, e la L. 24 novembre 1981, n. 689, riguardanti
l'una i procedimenti amministrativi in genere, l'altra in ispecie quelli
finalizzati all'irrogazione delle sanzioni amministrative, caratterizzati da
questa loro funzione del tutto peculiare, che richiede e giustifica (per quanto
già detto) una distinta disciplina in relazione al carattere perentorio del
termine fissato all’Autorità per provvedere alla irrogazione della sanzione. La
legge n. 689 del 1981 (salvo che la legge disponga diversamente, con specifiche
norme in tema di illeciti amministrativi puniti con sanzioni pecuniarie) funge
da paradigma normativo generale per tutti i tipi di procedimenti sanzionatori,
di guisa che quanto osservato a proposito di tale legge deve ritenersi
applicabile anche al procedimento sanzionatorio avviato nel caso in esame dalla
Banca d’Italia.
D’altra
parte le stesse richiamate disposizioni regolamentari sui procedimenti
sanzionatori di competenza dell’organo di vigilanza si prendano cura di
disciplinare espressamente (art. 8) gli istituti della sospensione e della
interruzione dei termini procedimentali, a riprova del carattere perentorio da
riconnettere al termine per l’adozione del provvedimento conclusivo; non
sarebbe infatti pienamente coerente con i predetti istituti prefigurare il
termine finale come termine soltanto ordinatorio, mentre invece il suo rispetto
si pone – come detto sopra rilevato - in termini di stretta connessione con una
adeguata ed effettiva tutela del diritto defensionale del destinatario del
provvedimento che sia espressivo della pretesa punitiva della amministrazione.
2.4 A
conclusioni non diverse sulla questione della perentorietà o meno del termine
di conclusione del procedimento conduce l’esame della posizione assunta dalle
sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 20929 del 30
settembre 2009 (richiamata nelle impugnate sentenze a sostegno della tesi del
carattere non perentorio del termine).
Come
puntualmente osservato dalla difesa degli appellanti, nel caso oggetto di quel
giudizio, infatti, si trattava dell’osservanza del termine endoprocedimentale
di centottanta giorni previsto dal regolamento Consob n. 12697 del 2 agosto
2006 per la formulazione della proposta sanzionatoria da parte della Consob al
Ministero dell’economia (secondo la disciplina all’epoca vigente).
E’
evidente quindi che la questione era ben diversa da quella qui oggetto di
causa, ove si discute del termine di adozione del provvedimento conclusivo,
dalla cui violazione possono derivare immediate ripercussioni sulla effettività
del diritto di difesa.
In
ogni caso, non appare rilevante nella specie quanto osservato dalla Cassazione
(con argomenti fatti propri dalla difesa della odierna parte appellata) a
proposito della irrilevanza dei vizi formali nei provvedimenti a contenuto
vincolato o comunque immodificabile, ai sensi dell’art. 21 octies della
legge generale sul procedimento amministrativo.
Infatti,
i provvedimenti sanzionatori – quale appunto quello di specie – non possono di
certo essere qualificati come ‘vincolati’.
Essi
sono dotati di un tasso di discrezionalità coessenziale alla loro natura, sia
in ordine all’accertamento dei fatti ed alla loro qualificazione giuridica (per
i quali sussiste una accentuata discrezionalità tecnica), sia in ordine alla
quantificazione della sanzione.
La
sussistenza di tali poteri discrezionali rende per ciò solo inapplicabile il
richiamato art. 21 octies.
3.-
In definitiva, gli appelli vanno accolti sotto l’assorbente profilo della
riscontrata violazione del termine di conclusione del procedimento
sanzionatorio e, in riforma delle impugnate sentenze, deve essere annullata la
deliberazione del Direttorio della Banca d’Italia 3 dicembre 2010, n. 945,
avente per oggetto le posizioni degli appellanti.
Le
spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate tra le
parti, ricorrendo giusti motivi.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente
pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, li accoglie previa
riunione e, in riforma delle impugnate sentenze, accoglie i ricorsi di primo
grado ed annulla l’atto in quella sede impugnato, come emanato nei confronti
degli appellanti.
Spese
del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così
deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2012 con
l'intervento dei magistrati:
L.
M., Presidente
A.
S., Consigliere
M.
M., Consigliere
G. C.
S., Consigliere, Estensore
R.
V., Consigliere
L'ESTENSORE |
IL
PRESIDENTE |
|
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il
29/01/2013
IL
SEGRETARIO
(Art.
89, co. 3, cod. proc. amm.)
N. 01199/2016REG.PROV.COLL.
N. 00225/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione
Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale 225 del 2013, proposto da: E. L., G. D. R.
e M. C., rappresentati e difesi dall'avvocato M. L., con domicilio eletto
presso il medesimo difensore in Roma, Lungotevere R. S., 9;
contro
Banca
d'Italia, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e
difesa dagli avvocati F. S. e R. D'A., domiciliata in Roma, (omissis);
nei
confronti di
A.
S., M. R. P., C. F., F. D. L., G. C., P. S., L. L., L. S.; Orconsult Capital
Management Italia Spa- in liquidazione coatta amministrativa;
per
la riforma
della
sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III n. 3975/2012, resa tra le parti,
concernente irrogazione sanzioni amministrative pecuniarie
Visti
il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto
l'atto di costituzione in giudizio della Banca d'Italia;
Viste
le memorie difensive;
Visti
tutti gli atti della causa;
Relatore,
nell'udienza pubblica del giorno 25 febbraio 2016, il consigliere di Stato G.
C. S. e uditi per le parti l’avvocato L. e l’avvocato B. per delega degli
avvocati D'A. e S.;
Ritenuto
e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
e DIRITTO
1.-
Con le sentenza in epigrafe indicata il Tribunale amministrativo regionale del
Lazio ha respinto il ricorso di primo grado degli odierni appellanti, proposto
avverso la deliberazione 1° aprile 2011 del Direttorio della Banca d’Italia
(nonché avverso gli atti connessi e presupposti), recante la irrogazione,
all’esito della procedura sanzionatoria di cui all’art. 195 del d.lgs. 24
febbraio 1998 n. 58 (recante il Testo unico delle disposizioni in materia di
intermediazione finanziaria), della sanzione amministrativa pecuniaria di
euro 60.000,00 in confronto di ciascuno degli appellanti, quali componenti il
collegio sindacale della società nel periodo compreso tra il 21 dicembre 2007
ed il 19 aprile 2010, in relazione all’omesso controllo su talune irregolarità
riscontrate nella gestione dell’attività di intermediazione finanziaria svolta
dalla SIM Orconsult s.p.a.( poi sottoposta a liquidazione coatta
amministrativa).
In
particolare, nei confronti degli odierni appellanti, veniva avviata la
procedura sanzionatoria amministrativa per le seguenti irregolarità riscontrate
nel corso degli accertamenti ispettivi, così numerate nella proposta e nella
delibera di irrogazione delle sanzioni:
1).
inadeguatezza dei requisiti patrimoniali da parte dei componenti il Consiglio
di amministrazione e il Collegio Sindacale (art.6, comma 1, lett. a), d.lgs.
58/98);
2).
inesatte segnalazioni all'Organo di Vigilanza da parte dei componenti il
Consiglio di amministrazione e il Collegio Sindacale (artt. 8, comma 1 e 214.
comma 5 d.lgs. 58/98);
4).
carenze nei controlli da parte dei componenti il Collegio Sindacale (art.6,
comma 20 bis., d.lgs. 58/98).
La
contestazione delle infrazioni avveniva con note del 21 maggio 2010 notificate
agli
interessati
il 27 maggio 2010.
La
contestazione veniva effettuata, per obbligo di legge, anche nei confronti
della SIM in l.c.a., per la quale la notifica aveva luogo in data 7 giugno
2010. Essendo questa l'ultima notifica effettuata, da tale data, come si vedrà
meglio nella parte in diritto, ha iniziato a decorrere il termine per la conclusione
del procedimento.
Con
nota del 18 giugno 2010 (ricevuta il successivo giorno 22) gli interessati
richiedevano una proroga per la presentazione delle controdeduzioni che veniva
concessa, nella misura di 30 giorni a decorrere dalla data di scadenza del
termine precedente.
Le
controdeduzioni venivano in seguito presentate con nota del 23 luglio 2010
firmata sia
dai
sindaci sia dagli amministratori e, con nota del 7 luglio 2010, dalla SIM in
l.c.a. a firma del Commissario liquidatore.
La
Commissione per l'esame delle irregolarità riscontrate nell'attività di
vigilanza della Banca d'Italia, ritenendo sussistenti le violazioni accertate e
giudicando le controdeduzioni prodotte dagli interessati non idonee a
giustificare i comportamenti oggetto di contestazione, formulava al Direttorio
la proposta per l'irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie (cfr.
nota n. 279931 del 31 marzo2011).
Con
il menzionato provvedimento del 1° aprile 2011, in accoglimento della proposta
formulata dalla Commissione consultiva, il direttorio della Banca d'Italia
irrogava le sanzioni sopra indicate.
2.-
Gli appellanti tornano a proporre in questo grado i motivi di ricorso già disattesi
dal giudice di prime cure, insistendo in particolare nella censura di
violazione del termine di conclusione del procedimento irrogativo della
contestata sanzione pecuniaria, di difetto di istruttoria e di motivazione del
provvedimento conclusivo e, nel merito, rilevando l’insussistenza delle dedotte
irregolarità loro ascritte nel corso del procedimento.
Concludono
gli appellanti per l’annullamento del provvedimento sanzionatorio, in
accoglimento dell’appello e del ricorso di primo grado ed in riforma della
impugnata sentenza.
Si è
costituita in giudizio la Banca d’Italia per resistere all’appello e chiederne
la reiezione.
Le
parti hanno presentato memorie illustrative in vista dell’udienza di
discussione della causa.
All’udienza
pubblica del 25 febbraio 2016 l’appello è stato trattenuto per la decisione.
3.-L’appello
è infondato e va respinto.
4.-Prima
dell’esame del merito della causa, vanno affrontate due questioni di carattere
preliminare: l’una afferente alla giurisdizione, l’altra alla decadenza dalla
potestà sanzionatoria da parte di Banca d’Italia.
5.-
Anzitutto, va sciolto il nodo della sussistenza o meno della giurisdizione di
questo giudice amministrativo a conoscere della controversia.
Va
premesso che durante la pendenza del presente giudizio di appello è intervenuta
la sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 15 aprile 2014. Con tale
sentenza, la Corte Costituzionale ha, tra l'altro: dichiarato l'illegittimità
costituzionale degli arti. 133, comma 1, lettera 1), 134, comma 1, lettera e),
e 135 , comma 1, lettera e), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione
dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo
per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui
attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con
cognizione estesa al merito, e alla competenza funzionale del Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio — sede di Roma le controversie in materia
di sanzioni irrogate dalla Banca d'Italia; dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 4, comma 1, numero 19), dell'Allegato 4 al medesimo
d.lgs. n. 104 del 2010, nella parte in cui abroga gli arti. 187-septies, commi
da 4 a 8, e 195, commi da 4 a 8, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58
(Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria,
ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52).
Per
effetto di tale sentenza è venuta meno, per le controversie della specie per
cui è causa, la giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente
reviviscenza della giurisdizione del giudice ordinario e della competenza
funzionale della Corte d'appello del luogo in cui ha sede l'intermediario cui
appartiene l'autore della violazione.
Alla
luce di tale sopravvenuta decisione, entrambe le parti hanno concluso in via
preliminare per la declaratoria di difetto di giurisdizione di questo giudice
amministrativo, posto che oggetto del presente giudizio è la legittimità del
provvedimento col quale la Banca d’Italia ha irrogato agli odierni appellanti
una sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 195 del Testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria.
La
difesa degli appellanti, in via subordinata ( e quindi per il caso di mancata
declaratoria del difetto di giurisdizione) ha sollevato, in memoria
conclusionale, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 del c.p.a.,
nella parte in cui lo stesso non prevede la rilevabilità d’ufficio anche in
appello della questione di giurisdizione quante volte, come nel caso di specie,
sia sopravvenuta una decisione della Corte costituzionale che abbia acclarato
la illegittimità costituzionale della legge attributiva della giurisdizione al
giudice amministrativo.
Osserva
il Collegio come la questione di giurisdizione sia nel presente giudizio
definitivamente preclusa in quanto coperta da giudicato implicito, formatosi a
seguito della sentenza del giudice di primo grado che, nel decidere il merito
della causa, ha con ciò ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice
amministrativo a conoscere della controversia.
Tale
sentenza, in quanto non impugnata, né in via principale, né in via incidentale
sotto il profilo della giurisdizione, è divenuta per questa parte intangibile,
non essendo consentito, in grado d’appello, che la questione possa essere
sollevata d’ufficio o essere esaminata in assenza di una specifica impugnazione
(art. 9 c. p. a.).
La
soluzione non muta alla luce ella intervenuta pronuncia della Corte
Costituzionale n. 94 del 2014.
Ed
invero, una volta che il giudice di primo grado ha ritenuto la propria
giurisdizione ed ha pronunciato nel merito, respingendo il ricorso, l’omessa
riproposizione avanti al giudice d’appello della questione di giurisdizione
determina che su di essa si formi il giudicato, con l'ulteriore conseguenza che
la pronuncia di incostituzionalità non può riverberare alcun effetto nel
giudizio in cui si sia formato il giudicato implicito sulla giurisdizione (per
l’affermazione di tale principio cfr., tra le tante, Cass. sez. un. n. 17839
del 2012); in altri termini, poiché per effetto della mancata impugnazione
sulla giurisdizione della sentenza che ha deciso il merito della controversia,
si è formato il giudicato implicito sulla sussistenza della giurisdizione, la
pronuncia di incostituzionalità della norma sul cui presupposto il giudice ha
deciso nel merito non ha effetto su quel processo, perché il rilievo del
difetto di giurisdizione è ormai in quella sede definitivamente precluso.
Inoltre,
va ricordato che, ai sensi dell’art. 5 c.p.c., la giurisdizione e la competenza
si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente
al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad
esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. Il principio,
sancito dall’art. 5 c.p.c., trova la sua ragion d’essere in esigenze di
economia processuale e la sua concreta applicazione mira ad evitare che, in
questo modo, la questione di giurisdizione venga ritrattata.
Anche
l’art. 9 c.p.a. partecipa delle medesime finalità di economia processuale
divisate dall’appena richiamato art. 5 c.p.c., volte ad escludere in radice
comportamenti delle parti poco inclini al dovere di lealtà processuale.
Finalità queste il cui perseguimento non è ostacolato dalla sopravvenuta
sentenza di incostituzionalità della norma attributiva della giurisdizione,
posto che l’aver reso intangibile – nei sensi anzidetti - la giurisdizione del
giudice presso il quale la causa pende in appello, con scelta discrezionale del
legislatore immune da vizi di ragionevolezza, non pone a quest’ultimo alcun
problema di applicazione di una norma giudicata incostituzionale (posto che,
essendo la questione definitivamente preclusa, non si pone un problema di
applicazione della disposizione normativa dichiarata non conforme a
Costituzione).
Dai
rilievi che precedono consegue la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale del richiamato art. 9 c.p.a. posto che il
tradizionale limite alla retroattività delle sentenze di illegittimità
costituzionale trova qui puntuale applicazione con riguardo ai rapporti
processuali coperti da giudicato, senza che possa rilevare la circostanza che
la causa non sia ancora stata definita nel merito, attesa la già rilevata immodificabilità
della decisione sulla questione di giurisdizione.
D’altronde
a determinare l’effetto preclusivo della questione è stata una ben precisa
scelta processuale delle parti, che non hanno introdotto motivi di appello (in
via principale o incidentale) alla sentenza di primo grado sotto il profilo
della giurisdizione.
Per
altro verso, è appena il caso di soggiungere che la giurisdizione
amministrativa non offre garanzie processuali inferiori a quelle proprie della
giurisdizione ordinaria (cfr. Corte cost. n.204 del 2004), di guisa che la
scelta delle parti (irrevocabile, per quanto anzidetto) di adire, in primo
grado ed in appello, il giudice amministrativo non si risolve in un vulnus per
la pienezza del diritto di difesa o per altre loro prerogative processuali di
rango costituzionale.
6.-
Ancora in via preliminare, va affrontato il tema della violazione o meno, ad
opera di Banca d’Italia, del termine per l’adozione del provvedimento
conclusivo del procedimento sanzionatorio.
Come
si è ricordato in fatto, la questione preliminare ed assorbente riproposta in
questo grado dagli appellanti attiene alla violazione, da parte della Banca
d’Italia, del termine finale di conclusione del procedimento sanzionatorio, con
conseguente decadenza dell’Istituto dal potere di sanzionare le condotte
ascritte agli odierni appellanti.
6.1
Osserva il Collegio che la censura non appare meritevole di favorevole esame.
Nella
impugnata sentenza, il Tar ha escluso che la ridetta violazione procedimentale
ricorresse in concreto in base ad una duplice considerazione :a) per la natura
non perentoria del termine fissato in duecentoquaranta giorni all’autorità
decidente dal Regolamento della Banca d’Italia 25 giugno 2008; b) per la
mancata violazione in concreto del predetto termine, dovendosi computare quale dies
a quo quello dell’ultima notifica delle contestazioni compiuta in confronto
della società Orconsult ( e non invece tener conto semplicemente, come
sostenuto dagli originari ricorrenti, soltanto delle notifiche eseguite in confronto
dei singoli componenti il collegio sindacale della società).
Il
Collegio condivide la suindicata motivazione come riportata sub b), di per sé
sufficiente a ritenere superata, nella specie, la questione del preteso
carattere invalidante della violazione del termine finale per provvedere:
nessuna violazione procedimentale è infatti occorsa, sotto il dedotto profilo,
nel caso per cui è giudizio.
Ed
invero, il punto 129 dell’allegato al Regolamento prevede che il procedimento
sanzionatorio relativo alle violazioni delle disposizioni del d.lgs n.58/1998 e
disciplinato dall’art. 195 del medesimo decreto legislativo deve concludersi
nel termine di duecentoquaranta giorni dalla scadenza del termine per la
presentazione delle controdeduzioni da parte del soggetto che ha ricevuto per
ultimo la notifica della contestazione.
Nel
caso di specie, chi ha ricevuto per ultimo regolare notifica della
contestazione è la Orconsult SIM in l.c.a., cioè il soggetto del quale gli
autori delle violazioni erano esponenti, quindi responsabile in solido con
essi, ai sensi dell’art. 195, comma 9, d.lgs. cit., del pagamento delle
sanzioni e delle spese di pubblicità delle stesse.
In
particolare la Orconsult SIM ha ricevuto la notifica della contestazione in
data 7 giugno 2010, come risulta dalla relata di notifica a firma del
commissario liquidatore.
Ora,
poiché il termine di presentazione delle controdeduzioni, che sarebbe scaduto
il 7 luglio 2010 è stato prorogato di trenta giorni su richiesta degli
esponenti della SIM, ne consegue che l’autorità decidente aveva termine fino al
4 aprile 2010 per l’adozione del provvedimento: discende pertanto la piena
tempestività del provvedimento irrogativo della sanzione, adottato il 1° aprile
2010.
Non
convince la tesi degli appellanti secondo cui non dovrebbe tenersi conto, nel
computo del suddetto termine per provvedere, della posizione della società
Orconsul, in quanto non inquadrabile tra i “soggetti responsabili”. La società
è responsabile civile del pagamento della sanzione (salvo l’obbligo di rivalsa
nei confronti dei soggetti responsabili), è facultata alla proposizione delle
controdeduzioni in sede procedimentale nonché alla proposizione del ricorso giurisdizionale
contro il provvedimento conclusivo. In definitiva, è un soggetto che, a pieno
titolo, partecipa al procedimento sanzionatorio ed è destinatario dei suoi
effetti più significativi; per tal ragione la legge lo contempla espressamente
tra coloro cui deve essere eseguita la notifica della contestazione degli
addebiti, di tal che non v’è ragione di non tener conto della sua posizione
procedimentale ai fini del computo del termine finale per l’adozione del
provvedimento conclusivo del procedimento.
6.2
Solo per completezza, attesa la esaustività di quanto rilevato al fine di
ritenere non tardivo il provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa
per cui è giudizio, il Collegio osserva che non appaiono condivisibili i
rilievi del giudice di primo grado inerenti il carattere non perentorio del
termine per la conclusione del procedimento.
Il
Collegio è consapevole che gli orientamenti giurisprudenziali in tema non sono
univoci.
Secondo
un primo (ma minoritario) orientamento, il provvedimento irrogativo di una
sanzione amministrativa, purché intervenuto nel termine prescrizionale di
cinque anni previsto dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981, non è ex se
illegittimo ove adottato in violazione del termine procedimentale per lo stesso
previsto, salvo che sia diversamente previsto (Cass. sez. lav., 17 giugno 2003
n. 9680).
La
posizione della giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, VI, 20 maggio 2011,
n. 3015; Cons. Stato, VI, 6 agosto 2013 n. 4113; id., 29 gennaio 2013 n. 542;
T.a.r. Lazio, III, 3 dicembre 2015 n. 13668; id. 13 luglio 2015 n. 9346; 7
dicembre 2012 n. 10249) è tuttavia quasi univocamente orientata nel senso che,
in materia di sanzioni amministrative, il termine fissato per l’adozione del
provvedimento finale abbia natura perentoria, a prescindere da una espressa
qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che lo preveda.
La
giurisprudenza del giudice ordinario formatasi in tema di sanzioni irrogate ai
sensi della legge n. 689 del 1981 si è orientata nel senso di ritenere
perentorio il termine fissato dall’art. 18 all’autorità competente per
l’adozione della ordinanza-ingiunzione, dopo che le sezioni unite della Corte
di Cassazione (27 aprile 2006, n. 9591) hanno rilevato il carattere perentorio
o comunque la natura decadenziale del termine fissato all’autorità
amministrativa per l’adozione del provvedimento sanzionatorio conclusivo.
Il
Collegio non ha motivo di discostarsi da tale ultimo condivisibile
orientamento, tenuto conto della particolarità del procedimento sanzionatorio
rispetto al generale paradigma del procedimento amministrativo di cui alla
legge n. 241 del 1990 (in cui è pacifico, per contro, che lo spirare del
termine per provvedere non determina conseguenze invalidanti sul provvedimento
tardivamente adottato).
6.3
Peraltro, questa Sezione ha avuto modo di recente, sia pur in diversa materia,
di fissare alcuni principi generali, riguardo alla natura e agli effetti delle
sanzioni amministrative, che appare utile qui richiamare per le ricadute che le
stesse hanno anche sul tema qui controverso.
Si è
osservato al proposito (cfr. Cons. Stato, VI, n. 4487 del 2015) che le sanzioni
si distinguono in sanzioni in senso lato e sanzioni in senso stretto: le prime
hanno una finalità ripristinatoria, in forma specifica o per equivalente,
dell’interesse pubblico leso dal comportamento antigiuridico; le seconde hanno
una finalità afflittiva, essendo indirizzate a punire il responsabile
dell’illecito allo scopo di assicurare obiettivi di prevenzione generale e
speciale.
Le principali
tipologie di sanzioni in senso stretto sono pecuniarie, quando consistono nel
pagamento di una somma di denaro, ovvero interdittive, quando impediscono
l’esercizio di diritti o facoltà da parte del soggetto inadempiente.
La
disciplina generale delle sanzioni pecuniarie, modellata alla luce dei principi
di matrice penalistica, è contenuta nella legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche
al sistema penale).
Se la
sanzione ha natura afflittiva, la stessa deve essere sostanzialmente
equiparata, ai fini della disciplina applicabile, ad una vera e propria
sanzione penale.
La
Corte di Strasburgo ha elaborato propri e autonomi criteri al fine di stabilire
la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione.
In
particolare, sono stati individuati tre criteri, costituiti: i) dalla
qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la
puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta la valenza
“intrinsecamente penale” della misura; ii) dalla natura dell’illecito, desunta
dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo
perseguito; iii) dal grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014,
r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio
2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Z. c. Russia; si v. anche Corte di
giustizia UE, grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10; si
veda, da ultimo, su questi tre criteri, Cons. Stato, sez. VI, sentenza 26 marzo
2015, n. 1596, spec. par. 14).
6.4
Ciò premesso, non par dubbio che nella specie la sanzione applicata dalla Banca
d’Italia in confronto degli odierni appellanti abbia natura afflittiva, di tal
che il Collegio ritiene che anche l’argomento fondato sulla natura del
provvedimento sanzionatorio suggerisca la soluzione della necessaria
perentorietà del termine per provvedere, attesa la stretta correlazione
sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di
difesa dell’incolpato, avente come è noto protezione costituzionale (nel combinato
disposto degli articoli 24 e 97 Cost.).
Non
par dubbio, infatti, che consentire l’adozione del provvedimento finale entro
il lungo termine prescrizionale (cinque anni, in base all’art. 28 della legge
n.689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per
l’adozione dell’atto, equivarrebbe ad esporre l’incolpato ad un potere
sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso
approntare in concreto adeguati strumenti di difesa.
6.5
Va d’altra parte tenuta ben distinta la disciplina generale del procedimento
amministrativo (nell’ambito della quale alla violazione del termine
procedimentale ordinariamente fissato all’Amministrazione non consegue
l’invalidità dell’atto tardivamente adottato) rispetto alla disciplina, per
questa parte a carattere speciale, del procedimento irrogativo di una sanzione
amministrativa pecuniaria, il cui paradigma normativo è ancora individuabile
nella legge n. 689 del 1981.
Non
impedisce di pervenire a questa conclusione il carattere “universale” della
legge generale sul procedimento amministrativo.
Per
il principio di specialità, che prevale sul principio ordinario di successione
cronologica delle norme, le disposizioni posteriori non comportano
l’abrogazione delle precedenti, ove queste ultime disciplinano diversamente la
stessa materia in un campo particolare.
E
appunto in questo rapporto si pongono la legge 7 agosto 1990, n. 241, e la
legge 24 novembre 1981, n. 689, riguardanti l’una i procedimenti amministrativi
in genere, l’altra in ispecie quelli finalizzati all’irrogazione delle sanzioni
amministrative, caratterizzati da questa loro funzione del tutto peculiare, che
richiede e giustifica (per quanto già detto) una distinta disciplina in
relazione al carattere perentorio del termine fissato all’Autorità per
provvedere alla irrogazione della sanzione. La legge n. 689 del 1981 (salvo che
la legge disponga diversamente, con specifiche norme in tema di illeciti
amministrativi puniti con sanzioni pecuniarie) funge da paradigma normativo
generale per tutti i tipi di procedimenti sanzionatori, di guisa che quanto
osservato a proposito di tale legge deve ritenersi applicabile anche al
procedimento sanzionatorio avviato nel caso in esame dalla Banca d’Italia.
6.6
D’altra parte, le stesse richiamate disposizioni regolamentari sui procedimenti
sanzionatori di competenza di Banca d’Italia si prendono cura di disciplinare
espressamente (art. 8) gli istituti della sospensione e della interruzione dei
termini procedimentali, a riprova del carattere perentorio da riconnettere al
termine per l’adozione del provvedimento conclusivo; non sarebbe infatti
pienamente coerente con i predetti istituti prefigurare il termine finale come
termine soltanto ordinatorio, mentre invece il suo rispetto si pone – come
sopra rilevato – in termini di stretta connessione con una adeguata ed
effettiva tutela del diritto di difesa del destinatario del provvedimento,
espressione della pretesa punitiva della amministrazione.
6.7 A
conclusioni non diverse riguardo alla natura perentoria del termine di
conclusione del procedimento conduce l’esame della posizione assunta dalle
sezioni unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 20929 del 30
settembre 2009 e da ultimo da Cass. n. 1065 del 2014 e n. 25142 del 2015.
Nel
caso deciso dalle sezioni unite si trattava dell’osservanza del termine
endoprocedimentale di centottanta giorni previsto dal regolamento Consob n.
12697 del 2 agosto 2006 per la formulazione della proposta sanzionatoria da
parte della Consob al Ministero dell’economia (secondo la disciplina all’epoca
vigente).
E’
evidente quindi che la questione era ben diversa da quella qui oggetto di
causa, ove si discute del termine di adozione del provvedimento conclusivo,
dalla cui violazione possono derivare immediate ripercussioni sulla effettività
del diritto di difesa.
In
relazione alle altre richiamate decisioni, non appare al Collegio condivisibile
quanto osservato dalla Corte di Cassazione a proposito della irrilevanza, ai
sensi dell’art. 21 octies della legge generale sul procedimento amministrativo,
dei vizi formali nei provvedimenti a contenuto vincolato o comunque
immodificabile.
In
disparte il rilievo, già sviluppato, riguardo alla dubbia applicabilità, in via
automatica, degli istituti riconducibili alla disciplina generale del
procedimento amministrativo, ad un sistema procedimentale speciale ed in sé
conchiuso riguardante l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie,
risulta non condivisibile l’aggregazione del provvedimento sanzionatorio al genus
dell’atto a contenuto vincolato.
Tali
atti sono dotati di un tasso di discrezionalità coessenziale alla loro natura,
sia in ordine all’accertamento dei fatti ed alla loro qualificazione giuridica
(per i quali sussiste una accentuata discrezionalità tecnica), sia in ordine
alla quantificazione della sanzione.
La
sussistenza di tali poteri discrezionali rende per ciò solo inapplicabile il
richiamato art. 21 octies della legge generale sul procedimento
amministrativo.
6.8
In definitiva, il termine per la conclusione del procedimento irrogativo di una
sanzione amministrativa pecuniaria ha carattere perentorio.
Tuttavia,
nel caso in esame, detto termine non risulta violato, dovendo procedersi – per
quanto già detto -al computo del predetto termine partendo dalla notifica
eseguita (per ultima) in confronto della Orconsult SIM.
7.-
Ancora in via preliminare, va osservato che correttamente il giudice di primo
grado ha rilevato l’inammissibilità della censura inerente la violazione del
termine per la contestazione degli addebiti, in quanto mai ritualmente proposta
nel corso del giudizio di primo grado.
Il
Collegio qui deve ribadire la correttezza di tale decisum, non potendo
valere, in senso contrario, ad integrare uno specifico motivo di doglianza la
deduzione – che si legge nel ricorso introduttivo del giudizio - di generiche
violazioni nella scansione temporale delle fasi del procedimento da parte della
amministrazione procedente senza alcuno specifico riferimento alla fase della
contestazione degli addebiti.
8.-
Può ora passarsi all’esame delle censure di merito, per il cui scrutinio può
procedersi nel rispetto dell’ordine di deduzione dei distinti motivi articolati
dagli appellanti (con esclusione delle questioni già dianzi esaminate).
9.-
Con un primo articolato motivo, in parte riassuntivo delle singole censure
successivamente sviluppate in appello, gli appellanti assumono che la sentenza
gravata non si sarebbe fatto carico di esaminare compiutamente la questione
nodale del giudizio, afferente alla individuazione del comportamento
concretamente esigibile da parte dei sindaci, utile a mandare costoro esenti da
responsabilità.
In altri
termini, gli appellanti assumono che, nonostante il provvedimento sanzionatorio
abbia preso atto dei numerosi interventi sollecitatori e propulsivi dell’organo
sindacale, abbia poi concluso per la responsabilità dei suoi componenti sulla
base del solo rilievo della intervenuta liquidazione coatta della società
Orconsult, con un salto logico riguardo agli effettivi profili di
responsabilità, anche con riguardo all’elemento psicologico, in capo ai singoli
componenti dell’organo di sorveglianza. Ed anche il Tar, con la sentenza qui
impugnata, si sarebbe appiattito su tali posizioni, individuando nell’attività
posta in essere dal collegio sindacale un controllo di tipo meramente formale,
incapace di evitare il dissesto finanziario della società.
Osserva
il Collegio come la censura non meriti condivisione.
Nella
sentenza impugnata, contrariamente a quanto affermato dagli appellanti, sono
stati adeguatamente vagliati sia i singoli profili delle violazioni contestate,
sia la specifica responsabilità personale degli incolpati. La circostanza che
il giudice di primo grado abbia ritenuto legittimo l’operato di Banca d’Italia
non deriva da supina adesione all’organo di vigilanza, quanto piuttosto
da un’autonoma valutazione della congruità delle conclusioni raggiunte,
coerenti con le evidenze istruttorie acquisite nel corso del procedimento.
Rileva
il Collegio che la sentenza impugnata ha invero dato atto e riconosciuto gli
adempimenti posti in essere dai ricorrenti ed allegati a loro discolpa, ma
proprio dalla valutazione delle iniziative assunte dai sindaci ha ritenuto —
conformemente a quanto aveva già concluso l'Organo di Vigilanza nel
provvedimento sanzionatorio — che si è trattato solo di iniziative formali e
non sostanziali, e cioè dei comuni adempimenti che vengono posti in essere dal
collegio sindacale nella ordinaria vita di una società vigilata, senza alcuna
concreta iniziativa fuori dal binario tracciato, nessun approfondimento,
nessuna ispezione diretta, nessuna specifica richiesta di informazione su punti
critici dettagliatamente indicati dall’Organo di Vigilanza; di tal che il
rispetto degli obblighi di controllo gravanti sul collegio sindacale ai sensi
dell’art. 2403 del cod.civ. è stato correttamente ritenuto solo formale e non
sostanziale.
D’altra
parte, il principio giurisprudenziale invocato dai ricorrenti ed espresso nella
sentenza della Corte di cassazione n. 5239 del 2008 risulta correttamente
applicato nel caso di specie per valutare la fondatezza degli addebiti, ossia
l'aver verificato l'inosservanza da parte dei sindaci degli obblighi di
controllo e di ispezione previsti dall'art. 2403, comma 3, cod. civ.
In
tale quadro, la intervenuta sottoposizione della società a liquidazione coatta
amministrativa, lungi dall’ assurgere a prova (postuma ed inadeguata, come
dedotto dagli appellanti) della colpevolezza dei componenti l’organo sindacale,
viene ad assumere il valore di rilevante indice sintomatico dell’inefficacia
delle iniziative assunte dai sindaci per risollevare la società dalla cronica
crisi di liquidità e dalla inadeguata capitalizzazione.
La
formale adozione di un manuale delle procedure e la verifica
dell'implementazione delle nuove procedure di "back office" di
per sé non appare giustificazione idonea, perché ancorata su elementi di mera
forma, in assenza di specifica indicazione di quali erano stati gli strumenti
concreti direttamente derivanti da tali iniziative che avrebbero inciso in modo
sostanziale al fine di invertire la tendenza più volte riscontrata dall'organo
di vigilanza (anche a partire dell'anno 2008 quando i sindaci qui appellanti
erano già in carica ). Né la circostanza che i sindaci abbiano collaborato con
gli ispettori nel periodo in cui tale attività era in corso può costituire
un'esimente, sia perché tale collaborazione è comunque doverosa, sia perché le
contestazioni hanno riguardato il complesso della gestione nonché le omissioni
imputabili all'organo sindacale, e non certo il comportamento tenuto dagli
esponenti durante l'ispezione.
Inoltre,
il Collegio osserva che gli appellanti non hanno fornito alcun elemento per
confutare le conclusioni della Banca d'Italia circa il carattere formale e poco
approfondito del controllo sulla gestione societaria loro ascritto. Il che
sarebbe stato semplice, essendo a tal fine sufficiente che i sindaci avessero
indicato le concrete iniziative assunte che si sarebbero rivelate efficaci se
solo gli amministratori le avessero eseguite .In realtà, l’azione del collegio
sindacale è stata correttamente valutata per quel che in concreto è stata, contraddistinta
dalla mera presa d'atto di resoconti e senza l'individuazione delle molteplici
anomalie operative, confermate da mancato rinvenimento di documentazione a
supporto, in molteplici casi, o da documentazione comunque insufficiente.
Le
gravi e diffuse carenze accertate avevano condotto all'espulsione dell'azienda
dal mercato e ciò era direttamente riconducibile all'insoddisfacente
svolgimento da parte dei componenti dell'organo di controllo delle proprie
funzioni ed il periodo di permanenza in carica (dalla fine del 2007 all’aprile
del 2010) è stato correttamente ritenuto congruo a garantire una adeguata
conoscibilità dei principali fatti societari.
La
sentenza di primo grado ha attentamente esaminato le esimenti indicate
dai sindaci per argomentare di aver esplicato tutta la diligenza possibile
nello svolgimento del loro incarico, dall'altro è giunta alla conclusione che
le iniziative illustrate fossero più formali che sostanziali, inidonee quindi a
fondare un giudizio di non responsabilità a favore degli incolpati. I
ricorrenti sottolineano i contenuti specifici degli obblighi ex art. 2403 c.c.,
e cioè accertamenti, ispezioni, richieste di interventi specifici; ma non
risulta che detti accertamenti siano stati da loro in concreto effettuati. Al di
là delle mere raccomandazioni agli amministratori contenute nei verbali
prodotti, nulla di più sostanziale e concreto è stato compiuto dai sindaci
anche solo nell’esercizio dei poteri indicati nell'art. 2403 cod. civ.
Del
resto, la mera allegazione di iniziative formali non vale ad escludere
l'elemento della colpa che, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 689 del 1981,
ha carattere presuntivo.
Gli
appellanti pretenderebbero una inversione dell'onere probatorio sull’elemento
psicologico, laddove invece la giurisprudenza più che consolidata è attestata
nel senso che non spetta all'Amministrazione procedente provare l'elemento
soggettivo dell'illecito bensì all'incolpato dimostrare l'assenza di colpa (
cfr. di recente, ex multis, Cass.2 aprile 2015 n. 6778); in altri
termini l'Amministrazione deve provare solo la suitas della condotta, e
cioè la mera riconducibilità degli illeciti contestati alla condotta degli
incolpati, gravando invece su questi ultimi dimostrare concretamente gli
elementi idonei a mandarli esenti da responsabilità.
In
definitiva, correttamente la sentenza impugnata ha rilevato l'assenza di riscontri
oggettivi rispetto all'effettività delle iniziative addotte a discolpa dai
sindaci.
10.
Con altro motivo, gli appellanti tornano a prospettare in questo grado la
questione della violazione dell'art. 24, comma 1, della legge n. 262 del 2005 -
che impone di tener distinte, nell'ambito dei procedimenti sanzionatori, le
funzioni istruttorie da quelle decisorie - e del provvedimento della Banca
d'Italia n. 473798 del 27 aprile 2006, recante le "Modalità
organizzative per l'attuazione del principio della distinzione tra funzioni
istruttorie e finzioni decisorie nell'ambito della procedura sanzionatoria"
.
In
particolare, gli appellanti assumono che tra la proposta sanzionatoria del 31
marzo 2011 e il provvedimento sanzionatorio del direttorio del 1° aprile 2011
sarebbe intercorso un intervallo temporale troppo breve per ritenere che
quest'ultimo abbia potuto svolgere un esame effettivo della proposta stessa e
decidere, se del caso, di svolgere un supplemento di istruttoria.
Il
Collegio rileva che anche tale motivo è infondato.
Innanzitutto,
le norme invocate dagli odierni appellanti si limitano a tracciare la
distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie e a indicare gli
organi competenti per ciascuna di esse; le stesse non possono quindi essere
d’aiuto ai ricorrenti, dato che nel caso in esame la Banca d’Italia ha
applicato correttamente quelle disposizioni essendo stato adottato il
provvedimento conclusivo da organo diverso da quello istruttorio ed in una a
fase ben distinta.
Né si
può dire che il breve lasso temporale intercorso tra proposta e provvedimento
conclusivo sia sintomatico dell’elusione sostanziale delle disposizioni dianzi
richiamate, e ciò in quanto:
quelle
disposizioni mirano ad operare una distinzione formale, utile a garantire la
massima imparzialità tra i due organi, ed evitare commistioni tra organo
istruttorio ed organo decidente, non invece ad appesantire il procedimento
ripetendo nel corso della seconda fase le attività compiute nella prima;
in
ogni caso, è dirimente l’argomento prospettato dall’Istituto appellato secondo
cui all'esito della pregressa ispezione svolta presso la SIM e conclusa 1'11
dicembre 2009 erano già emerse violazioni della disciplina sui servizi
d'investimento, tra cui la riduzione del patrimonio di vigilanza al di sotto
del minimo richiesto, che avevano indotto la Banca d'Italia a proporre al
Ministero dell'economia e delle finanze, il 10 aprile 2010, la liquidazione
coatta amministrativa della SIM .Nella proposta di liquidazione coatta
s'illustrano, tra l'altro, le singole violazioni e se ne attesta la stessa
riconducibilità agli organi di vertice della SIM. Tale proposta è un atto del
Direttorio della Banca d'Italia, organo competente per legge (art. 19, comma 6,
legge n.262 del 2005).Per tale ragione, l’organo decidente, al momento della
adozione del provvedimento sanzionatorio era già al corrente di quelle medesime
condotte che hanno poi determinato la applicazione della sanzione, di tal che
non è irragionevole che abbia valutato in poco tempo l’ascrivibilità delle
stesse (anche) a carico degli odierni appellanti, quali componenti il collegio
sindacale, dopo aver esaminato le controdeduzioni dagli stessi prodotte in sede
procedimentale.
11.-
Con ulteriore motivo, gli appellanti lamentano che il potere sanzionatorio della
Banca d’Italia sarebbe stato illegittimamente rivolto in loro confronto,
componenti del collegio sindacale solo nel periodo ricompreso tra il dicembre
2007 e l’aprile 2010, laddove le irregolarità contestate , consistite
essenzialmente nel mancato approntamento di un idoneo assetto organizzativo
della società e nella inosservanza dei requisiti minimi prudenziali, avrebbero
una genesi temporale ben più risalente. Sul punto, evidenziano che la impugnata
sentenza avrebbe prestato acritica adesione alle posizioni dell’istituto di
vigilanza e che non avrebbe colto l’esatto profilo della censura di primo
grado, laddove si criticava il provvedimento sanzionatorio ove lo stesso aveva
contestato ai componenti del collegio sindacale che detto organo si era limitato
alla presa d’atto dei resoconti del responsabile della conformità e del
revisore contabile.
Ritiene
il Collegio che anche tale censura non sia suscettibile di favorevole
scrutinio.
Come
correttamente rilevato dal giudice di primo grado, le contestazioni svolte in
confronto degli odierni appellanti hanno riguardato proprio il periodo in cui
costoro hanno esercitato le loro funzioni di sorveglianza presso Orconsult,
posto che a tale periodo si riferivano sia le rilevate carenze nei controlli e
nella documentazione sia la riduzione del patrimonio di vigilanza al 30
settembre 2009.
Mentre
tale ultima irregolarità si riferisce ad un’epoca in cui i sindaci erano già da
due anni nell’esercizio delle loro funzioni, le altre manchevolezze, indicate
nei rilievi ispettivi ad essi contestati, si riferiscono anch’esse ad anni
(2008 e 2009) in cui gli odierni appellanti erano nel pieno esercizio delle
loro funzioni; si tratta peraltro di un lasso temporale non poco significativo,
in relazione al quale i sindaci ben avrebbero potuto indicare le azioni in
concreto intraprese per ( quantomeno) limitare le irregolarità riscontrate.
Quanto
poi alle ipotizzate negligenze ascrivibili ad organi con compiti di controllo
interno ( anche ad ammetterne l’esistenza) le stesse non esimono in ogni caso i
sindaci da responsabilità posto che ai sensi dell’art.10 del regolamento
congiunto della Banca d'Italia e della CONSOB del 29 ottobre 2007, ai sindaci
sono attribuiti compiti e poteri necessari al pieno ed efficace assolvimento
dell'obbligo di rilevare le irregolarità nella gestione e le violazioni delle
norme disciplinanti la prestazione dei servizi d'investimento e, nello
svolgimento di tali compiti, essi possono poi avvalersi "di tutte le
unità operative aventi finzioni di controllo all'interno dell'azienda"
E’
chiaro dunque che il potere di controllo sul buon andamento gestorio di una SIM
competa innanzitutto ai sindaci, anche in funzione dell'obbligo su di essi
gravante di informare senza indugio le Autorità di vigilanza di tutti i fatti
che possano costituire un'irregolarità nella gestione o
una
violazione della disciplina applicabile all'intermediario (art. 8, d.lgs. 58
del 1998).
Pertanto,
correttamente la impugnata sentenza ha rilevato che le eventuali carenze di
tali organismi e strutture interne di controllo non escludono o riducono la
responsabilità dei sindaci, ma anzi costituiscono caso mai una circostanza
aggravante della responsabilità dell’organo sindacale.
12.
Sotto altro profilo, gli appellanti tornano a riproporre in questo grado la
questione della asserita carenza motivazionale del provvedimento irrogativo
delle sanzioni pecuniarie, evidenziando che lo stesso non avrebbe potuto
contenere una motivazione articolata per relationem rispetto alla
proposta, stante la distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie e
che la stessa proposta non darebbe, comunque, conto, in asserito spregio
all'art. 3 della legge 689/1981, delle posizioni, che si assumono tra loro
differenziate, dei sindaci, da un lato, e degli amministratori, dall'altro.
Osserva
il Collegio come la censura sia infondata sotto entrambi i profili.
La
motivazione ob relationem è anzitutto una delle possibili declinazioni
dell’obbligo sancito dall’art. 3, comma 3, 1. n. 241/1990, di tal che non vi è
motivo di denunciare sul piano della legittimità un provvedimento che abbia
fatto ricorso a tale tecnica motivazionale prevista dalla legge. La legge
prevede, al contrario, che l'organo decidente non possa discostarsi dalle
risultanze dell'istruttoria, se non adducendo una specifica motivazione (art.
6, comma 1, lett e), 1. n. 241/1990).
La
motivazione ad hoc è, dunque, espressamente richiesta quando l'organo
decidente disattenda la proposta; dal che consegue la piena legittimità della
scelta, coerente anche con il principio di economicità dell’azione
amministrativa, che la motivazione sia formulata con la tecnica del richiamo
espresso ad altro precedente atto del procedimento.
Quanto
all'asserita mancata differenziazione delle posizioni dei componenti gli organi
di controllo da un lato e amministrativo dall'altro va rilevato che, proprio
nella prospettazione invocata dai ricorrenti, per poter tener conto di
un'eventuale diversa rilevanza dell'elemento soggettivo, ai sensi dell’art. 3
della legge n. 689 del 1981, i sindaci avrebbero dovuto fornire specifici
elementi a tal fine. Senonché, le controdeduzioni sono state congiuntamente
presentate in sede procedimentale dagli amministratori e dai sindaci, senza
alcuna differenziazione delle rispettive posizioni se si eccettua il fatto che
i ricorrenti si sono limitati a rilevare di aver avuto poco tempo a
disposizione per approfondire la conoscenza dei fatti societari e di aver
sempre fatto constare a verbale (ma di tanto non è stata data prova) i loro
rilievi afferenti presunte criticità nella gestione societaria.
D’altra
parte, ai fini sanzionatori, non emerge alcuna distinzione sul piano ontologico
che possa riconnettersi alla diversa funzione di controllo riservata ai sindaci
rispetto alla funzione di amministrazione attiva, posto che sussiste piena
equivalenza tra condotte attive e passive come si desume, oltre che dall'art.
3, comma 1, della 1egge n. 689 del 1981, dall'art. 190, comma 3, del d.lgs. n.
58 del 1998 ai sensi del quale agli esponenti degli organi di controllo delle
S1M si applicano le medesime sanzioni previste per quelli degli organi di
gestione, qualora essi abbiano omesso di vigilare sulla condotta di questi
ultimi.
Non è
ravvisabile alcuna illegittimità, pertanto, nel fatto che la proposta della
Commissione non distingua la posizione dei sindaci da quella degli
amministratori, in relazione alla misura della responsabilità per le violazioni
per cui è causa.
Pertanto,
anche sotto tale profilo la sentenza impugnata va esente dalle censure
sollevate dagli appellanti.
13.
Altro motivo di censura gli appellanti rivolgono avverso quella parte della
impugnata sentenza con la quale è stato respinto il motivo di primo grado
incentrato sulla contestata incapienza del patrimonio di vigilanza della
Orconsult al 30 settembre 2009; data alla quale quel capitale. è risultato
inferiore al capitale minimo regolamentare essendo "pari ad euro 355
mila per effetto della deduzione di attività non liquide per euro 120 mila
(crediti nei confronti degli amministratori e dei sindaci per sanzioni irrogate
dalla CONSOB nel 2007), che non sono mai siate oggetto di segnalazione ai fini
dell'aggregato patrimoniale".
I
ricorrenti assumono che la Banca d'Italia - a conoscenza in virtù dell'art. 5,
comma 5, d.lgs.58 del 1998, delle sanzioni irrogate dalla CONSOB agli esponenti
della SIM il 23.4.2007 - nel rilevare che il patrimonio di vigilanza al
31.12.2007 si era attestato ad Euro 415 mila con una lieve eccedenza rispetto
al minimo di legge (Euro 385 mila) avrebbe ingenerato nei sindaci un
affidamento sulla congruità del patrimonio, nonostante la presenza dei predetti
crediti; sotto altro profilo, gli appellanti osservano che l'importo della
sanzione non avrebbe dovuto essere detratto dal patrimonio disponibile, così
come pure i crediti per rivalsa, in considerazione dell'impugnazione del
provvedimento afflittivo irrogato dalla CONSOB nell'aprile 2007.E che in ogni
caso, il credito di rivalsa della SIM nei confronti degli esponenti sarebbe
sorto soltanto dopo il pagamento delle sanzioni da parte della SIM.
In
definitiva, il provvedimento sanzionatorio sarebbe censurabile perché la
relativa motivazione avrebbe omesso il compiuto esame di tali elementi.
Osserva
il Collegio come nessuna delle censure sia meritevole di accoglimento.
Come
correttamente rilevato dalla difesa dell’Istituto appellato, la lettera della
Banca d'Italia del 7.4.2008, si limitava a rilevare la lieve eccedenza del
patrimonio di vigilanza della SIM (Euro 415 mila) rispetto al limite minimo
normativo (Euro 385 mila) e ad invitare l'intermediario ad adottare sollecite
iniziative volte a ricondurre l'ammontare del patrimonio a livelli di maggior
sicurezza. La lettera della Banca d'Italia considerava gli ultimi dati
trimestrali disponibili forniti dalla SIM, quelli cioè al 31 dicembre 2007 e
non conteneva alcun apprezzamento in ordine alla correttezza dell'imputazione
da parte della Orconsult al patrimonio di vigilanza delle singole poste attive.
In
altri termini, la valutazione espressa dalla Banca d'Italia nella nota suindicata
era riferita all'aggregato patrimoniale della società, non potendo con essa
esprimere apprezzamenti
riferiti
alle singole voci, in assenza della documentazione contabile dell'azienda.
Peraltro,
i dati trimestrali comunicati dalla Orconsult si riferivano solo all'aggregato
"altre attività" ove i crediti, per un ammontare complessivo
pari a Euro 59.000,00 al 31.12.2007, sono indicati senza specificazione degli
elementi distintivi relativi a ciascuno di essi (titolo, debitore, scadenza
ecc.).
Né la
valutazione sull'adeguatezza dell'aggregato patrimoniale della società
(espressa con la citata nota del 7.4.2008) avrebbe potuto essere influenzata
dalla comunicazione del pregresso provvedimento sanzionatorio assunto da CONSOB
nei confronti degli esponenti della Orconsult.
L'obbligo
di comunicazione dei provvedimenti sanzionatori adottati risponde al fine del
tutto diverso: quello di garantire a ciascuna delle Autorità un'informazione
quanto più completa possibile sulla situazione degli intermediari oggetto di
vigilanza condivisa, consentendo così di tener conto delle irregolarità
rilevate dall'altra Amministrazione per modulare adeguatamente la propria
azione di vigilanza.
Le
specifiche modalità attraverso le quali i soggetti vigilati decidono di far
fronte ai provvedimenti sanzionatori e la circostanza che essi paghino o meno
tempestivamente, maturando cosi un credito di rivalsa nei confronti dei
sanzionati, non è oggetto di comunicazione fra le autorità di controllo.
Nella
fattispecie, secondo quanto ammesso dagli stessi appellanti, la Orconsult ha
autonomamente stabilito di includere l'importo della sanzione tra le passività,
pur senza aver ancora disposto il pagamento in attesa dell'esito del giudizio;
la SIM, ancora una volta nella sua piena discrezionalità, ha poi deciso di
indicare i crediti di rivalsa quale posta attiva del patrimonio di vigilanza,
in sostituzione della somma corrispondente alla sanzione inclusa tra le
passività.
Come
evidenziato nella proposta sanzionatoria, non può peraltro ascriversi a Banca
d'Italia di aver ingenerato l’affidamento circa la legittimità di quelle
imputazioni atteso che la Orconsult non ha nemmeno comunicato l'inclusione di
tali crediti nel patrimonio, non consentendo quindi all'Autorità di vigilanza
di valutare specificamente la correttezza di tale imputazione.
Come
ha dedotto l’appellata Banca d’Italia, senza essere smentita in fatto dagli
appellanti, solo a decorrere dal 1° settembre 2008, e con riferimento alla data
contabile del 30 giugno2008, l’Istituto di Vigilanza è venuto a conoscenza del
fatto che i crediti di rivalsa in questione erano dalla SIM computati
nell'aggregato "altre attività".
Da
tutto quanto sopra risulta, allora, che la decisione di considerare i crediti
per rivalsa nel patrimonio di vigilanza è riconducibile a una precisa e
autonoma scelta della SIM, che è stata correttamente sanzionata in quanto,
essendo detti crediti di recupero incerto, non sono dotati della liquidità
necessaria per essere computati nel patrimonio di vigilanza.
Contraddittoria
e non condivisibile è altresì la censura secondo cui i crediti di rivalsa non
potevano essere computati se non all'esito dell'effettivo pagamento delle
sanzioni da parte della SIM. E’la stessa SIM, infatti, ad avere computato tali
crediti di rivalsa nel patrimonio di vigilanza già prima di eseguire il
pagamento.
In
definitiva, emerge chiara da quanto detto la contestata violazione del capitolo
12 del titolo I del regolamento della Banca d'Italia in materia di vigilanza
prudenziale per le SIM, nella parte in cui stabilisce (pag. 50) che "gli
elementi positivi che concorrono alla quantificazione del patrimonio devono
poter essere utilizzati senza restrizioni o indugi per la copertura dei rischi
e delle perdite aziendali nel momento in cui tali rischi o perdite si
manifestano".
Correttamente
quindi la sentenza di primo grado ha ritenuto infondata la doglianza senza
attribuire rilievo scriminante al parere reso dalla Iter Audit (peraltro non
citato nelle controdeduzioni degli incolpati) in ragione del fatto che tale
parere è intervenuto dopo la commissione dell'illecito: di tal che, al momento
della consumazione della violazione, i sindaci giammai avrebbero potuto fondare
sullo stesso un affidamento legittimo.
In
definitiva, i tentativi degli appellanti di utilizzare il citato parere
dell'Audit esterno per inferire una pretesa mancanza dell'elemento soggettivo
dell'illecito si rivelano privi di giuridico fondamento.
Deducono
inoltre gli appellanti un vizio di eccesso di potere sotto il profilo che la
Banca d'Italia, nel formulare la proposta, per giustificare di non aver potuto
attribuire valore esimente a una prospettata iniziativa di aumento di capitale,
aveva, fra l'altro, evidenziato le "anomale modalità di sottoscrizione
adottate dal socio Fin. Pet. ", mentre tali anomalie, assumono gli
appellanti, non si sarebbero verificate "in costanza del loro mandato
sindacale".
Anche
tale ultima doglianza si rivela infondata atteso che è incontestato, in fatto,
che la riferita operazione di aumento di capitale sia successiva alla chiusura
dell'ispezione e non sia stata considerata rilevante ai fini dell’accertamento
della violazione. La stessa è citata nella proposta quale elemento ulteriore a
comprova dell’inefficacia delle iniziative (già in passato infruttuosamente
assunte) funzionali al superamento del contestato deficit patrimoniale.
14.
Con altro motivo, gli appellanti tornano a censurare il carattere rilevante
che, nel provvedimento sanzionatorio, sarebbe stato attribuito alla nota del
7.7.2010del Commissario liquidatore di Orconsult, lamentando la mancata
conoscenza da parte loro di detta nota e la conseguente mancata articolazione,
anche in sede procedimentale, di più puntuali difese.
Osserva
il Collegio come il testo della proposta della Commissione non faccia
riferimento al contenuto di tale nota se non richiamandolo come elemento
meramente confermativo rispetto alla sostanza della contestazione sulle
modalità di sottoscrizione del capitale da parte del socio Fin. Pet.
In
ogni caso, appare pertinente il richiamo, contenuto al proposito nella sentenza
di primo grado, alla irrilevanza processuale della deduzione, alla luce di
quanto dispone l’art. 21 octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990,
in assenza di indicazioni da parte dei ricorrenti di come la citata nota
avrebbe influenzato in maniera determinante la decisione del Direttorio.
15.
Da ultimo, gli appellanti tornano a prospettare in questo grado la questione
della non corretta determinazione della misura della sanzione loro applicata
che sarebbe, secondo l’assunto difensivo, eccessiva e sproporzionata, anche in
rapporto a quella inflitta agli amministratori.
Osserva
il Collegio che anche tale motivo di censura va disatteso.
Sotto
un primo profilo, i ricorrenti lamentano che, nella determinazione della misura
della sanzione, non si sarebbe tenuto conto dell’attività disimpegnata
dall’organo sindacale per evidenziare le criticità nella gestione della SIM.
In
realtà, si è già detto che il provvedimento sanzionatorio abbia correttamente
evidenziato l’inadeguatezza delle iniziative dei sindaci, non correlate agli
addebiti loro ascritti, in relazione ai quali la loro azione di vigilanza è
stata correttamente ritenuta non funzionale ad assicurare la buona gestione
della SIM.
Inoltre,
i ricorrenti eccepiscono che non si sarebbe fatta alcuna distinzione tra la
posizione dei sindaci e quella degli amministratori, tanto più che ai primi
sarebbero state contestate carenze nei soli controlli e ai secondi carenze nell'organizzazione
e nei controlli.
La
censura non coglie la sostanza degli addebiti contestati, seppur a diverso
titolo, ai sindaci e agli amministratori; addebiti che sono sostanzialmente gli
stessi, per come contenuti nei rilievi ispettivi.
La
diversa denominazione delle violazioni sottolinea soltanto il diverso titolo
dell’incolpazione, che nel caso dei sindaci ha riguardo l'omesso controllo
sull'assetto organizzativo e dei controlli interni della SIM. E ciò è attestato
chiaramente dal rilievo ispettivo (n. 1)contestato soltanto ai sindaci , in
aggiunta a quelli sopra indicati, dove si legge che "del tutto
insoddisfacente è risultata l'azione del collegio sindacale, formale e poco
approfondita, in quanto basata sulla presa d'atto dei resoconti del responsabile
della conformità e del revisore contabile”; e che "le verifiche svolte,
pertanto, non sono state in grado di individuare le molteplici anomalie
operative di seguito esemplificate e le criticità dell'assetto organizzativo e
del sistema dei controlli".
Come
si è già visto, inoltre, la posizione di garanzia che i sindaci assumono alla
luce del principio generale sancito dall'art. 40, comma 2, c.p. (ribadito
dall'art. 3, comma 1 della 1. n. 689/1981 e soprattutto dall'art. 190, comma 3,
in materia di sanzioni ai componenti gli organi di controllo delle SIM),
giustifica la loro equiparazione agli amministratori ai fini della
quantificazione della sanzione.
A ciò
aggiungasi che le sanzioni comminate ai sindaci, pari a euro 30.000 per le
violazioni sub 1 e 2 della proposta e ad euro 30.000 per quella sub n. 4 della
stessa, risultano più vicine al minimo (euro duemilacinquecento) che al massimo
edittale (curo duecentocinquantamila) di cui all'art. 195, commi 1 e 3, d.lgs.
58/1998.
Nessuna
violazione dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza può pertanto essere
fondatamente indirizzata all’attività di Banca d’Italia nella determinazione
della sanzione agli odierni appellanti, la cui responsabilità per l’omesso
controllo nella causazione del dissesto aziendale non è stata correttamente
ritenuta inferiore a quella ascritta ai componenti dell’organo amministrativo.
Sotto
altro profilo, i ricorrenti tornano a dolersi che non si sarebbe tenuto conto,
sempre ai fini della determinazione della sanzione, delle modeste dimensioni
della SIM, e che quindi le violazioni non avrebbero potuto produrre in concreto
danni rilevanti né ai clienti né al mercato finanziario.
In
realtà, nel provvedimento di Banca d’Italia 3 settembre 2003, sulle procedure
di applicazione delle sanzioni amministrative agli intermediari non bancari,
l'entità della sanzione, stabilita entro i limiti edittali ed avuto riguardo ai
criteri previsti dalla legge, viene determinata sulla base della gravità della
violazione che si desume, tra l’altro, dalle conseguenze della medesima
sulla situazione tecnica aziendale - con riguardo anche alle dimensioni
dell'intermediario - ovvero sulla rappresentazione della situazione comunicata
alla Banca d'Italia.
Ne
consegue che, nella commisurazione delle sanzioni, le dimensioni della SIM
vengono in rilievo solo in via indiretta, per apprezzare, cioè, l'impatto sugli
assetti tecnici dell'azienda delle violazioni commesse dai relativi esponenti,
giammai per valutare l'entità dei danni che ne possono conseguire ai clienti o
al mercato, come invece pretendono i ricorrenti.
Ora,
nel caso di specie, la Orconsult, per effetto delle violazioni accertate, è
stata addirittura posta in liquidazione coatta amministrativa, e di tale
circostanza si è correttamente tenuto conto nel determinare l'importo delle
sanzioni
Per
quanto detto, anche tale motivo di ricorso va disatteso.
16.
In definitiva, l’appello va respinto nel suo insieme e va confermata la
impugnata sentenza.
17.
Le spese di lite del presente grado di giudizio possono essere compensate tra
le parti, tenuto conto della particolarità e della novità delle questioni
trattate.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente
pronunciando sull'appello (RG n. 225/13), come in epigrafe proposto, lo
respinge.
Spese
del presente grado di giudizio compensate.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così
deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2016, con
l'intervento dei magistrati:
S.
S., Presidente
G. C.
S., Consigliere, Estensore
D.
D'A., Consigliere
A.
P., Consigliere
M.
B., Consigliere
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L'ESTENSORE |
IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/03/2016
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Scritto il 2 aprile 2016 e modificato l’11 giugno 2019