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LIBERTA’ D’ESPRESSIONE

 

 

Lo Stato Italiano è un Paese che si definisce democratico. Difatti, nella rispettiva Costituzione troviamo gli articoli 1 comma primo e 21 comma primo i quali affermano: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” e “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.”.

Quindi, nel suddetto Stato prevale una dottrina politico legale della libertà d’espressione. Però, a tale facoltà possono essere applicate delle censure come l’istigazione a delinquere, prevista dall’articolo 414 del Codice Penale, l’istigazione a disobbedire alle leggi vietata dall’articolo 415 dello stesso Codice ed altre ancora che possono essere lesive della dignità personale, oltre all’ultimo comma del citato articolo 21 della Costituzione che vieta la pubblicazione a stampa e le manifestazioni contrarie al buon costume, delegando tale interdizione alle leggi ordinarie.

Al primo articolo succitato del Codice Penale, la Corte Costituzionale ha apposto delle modifiche interpretative con la Sentenza 23 aprile 1970, n. 65. Questa cita che il corrispondente delitto di istigazione nel commettere delitti deve essere concretizzato in un comportamento chiaro al fine di far compiere il corrispondente fatto illecito, tralasciando la pura e semplice manifestazione del pensiero.

Di conseguenza, qualsiasi censura d’espressione pubblica della propria mentalità deve identificarsi in un sicuro e chiaro comportamento diretto alla istigazione a commettere i corrispondenti reati, compresi anche quelli contro il buon costume a tutela dell’ultimo comma dell’articolo 21 della Costituzione Italiana. Tra questi potrebbe sussistere anche quel tipo di sollecito a compiere fatti che non sono illeciti, ma la cui istigazione alla relativa commissione sono punite dalla legge. Un esempio in merito può essere il reato di lenocino previsto dall’articolo 3 n. 5 della Legge 75/1958 “Merlin” e/o ulteriori della medesima norma.

In altre parole, alla suddetta branca normativa sulla prostituzione in Italia, si potrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui la stessa non prevede che dalla corrispondente pena sia esclusa la semplice e pura divulgazione del pensiero senza che vi possa essere un concreto messaggio rivolto all’istigazione in questione. Il tutto per contrasti con gli articoli 3 comma primo e 21 comma primo della Costituzione Italiana, i quali garantiscono l’uguaglianza tra tutti i cittadini per condizioni personali e sociali e per la libertà di espressione con qualsiasi mezzo di diffusione, oltre che tenendo presente la pronuncia in esame della Corte Costituzionale.

Si riporta di seguito la Sentenza 23 aprile 1970, n. 65 della suddetta Corte Giudicante.

 

 

 

 

 

 

Sentenza 65/1970

Giudizio

GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente B. - Redattore

Udienza Pubblica del 28/01/1970 Decisione del 23/04/1970

Deposito del 04/05/1970 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Massime:

4989 4990

Atti decisi:

 

N. 65

SENTENZA 23 APRILE 1970

Deposito in cancelleria: 4 maggio 1970.

Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 113 del 6 maggio 1970.

Pres. B. - Rel. R.

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Prof. G. B., Presidente - Prof. M. F. - Prof. C. M. - Prof. G. C. - Dott. G. V. - Dott. G. B. B. - Prof. F. P. B. - Dott. L. O. - Dott. A. D. M. - Avv. E. R. - Prof. E. C. - Prof. V. M. T. - Prof. V. C. - Dott. N. R. - Prof. P. R., Giudici,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 414, ultimo comma, del codice Penale, promosso con ordinanza emessa il 23 novembre 1968 dal giudice istruttore del tribunale di Rovigo nel procedimento penale a carico di T. L. G. e M. P., iscritta al n. 261 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica del 28 gennaio 1970 il Giudice relatore P. R.;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato F. C., per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto:

Il giudice istruttore presso il tribunale di Rovigo, richiesto dal p .m. di emettere decreto di archiviazione nei confronti di L. G. T. e di P. M., imputati di apologia di delitto per aver giustificato il reato di disobbedienza per cui tale B. era stato denunziato alla procura militare di Torino (art. 173 c.p.m.p.), respingeva l'istanza, disponendo l'ulteriore corso del procedimento.

Il giudice procedente osservava che nell'articolo "L'obiettore di coscienza" a firma del T., erano contenute frasi di apprezzamento della condotta degli obiettori di coscienza, (quale "... forse, oggi è prematuro abolire l'obbligo del servizio militare; ma per questo è anche preziosa la presenza di coloro che, a costo di pagare di persona, portano avanti l'idea che un giorno bisognerà farne a meno se ci si vorrà considerare ancora popoli civili ") che, secondo una certa interpretazione potevano essere sufficienti ad integrare gli estremi del reato previsto nell'ultimo comma dell'art. 414 del codice penale.

Sollevata dal difensore questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice, per contrasto con l'art. 21, primo comma, della Costituzione che garantisce il diritto di libera manifestazione del pensiero, il giudice a quo, ritenendo la questione rilevante e non manifestamente infondata, rimetteva gli atti del giudizio alla Corte costituzionale.

Con atto depositato il 18 febbraio 1969 interveniva in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentata dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione proposta.

Osserva l'Avvocatura che l'art. 21 della Costituzione non pone in essere un diritto illimitato, tanto vero che la Corte costituzionale ha riconosciuto che operano in senso limitativo, oltre la tutela del buon costume, espressamente richiamata, l'esigenza di impedire turbamenti dell'ordine pubblico, il cui mantenimento costituisce una finalità immanente nel sistema (sentenze n. 87 del 1966 e 19 del 1962).

In secondo luogo, osserva l'Avvocatura, anche ad aderire alla più rigorosa interpretazione dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale, l'apologia di delitto si riferisce sempre ad un concreto determinato avvenimento del passato, onde non può concernere la libera critica al sistema o alle sue singole norme. Mentre, dunque, la manifestazione del puro pensiero, scientifico, religioso, politico, ecc., tutelata dal principio costituzionale invocato, rimane del tutto estranea alla norma incriminatrice denunciata, questa punisce soltanto l'elogio del singolo fatto storico vietato penalmente, per la possibilità dell'evento turbativo dell'ordine pubblico che ne deriva immancabilmente.

Considerato in diritto:

La questione sottoposta all'esame della Corte è la seguente: se l'art. 414, ultimo comma, del codice penale, colpendo la pubblica apologia di ogni delitto, non possa, in talune ipotesi, costituire ingiusto impedimento alla libertà di manifestare il proprio pensiero; libertà fondamentale garantita a tutti, senza distinzione di modi e di materia, dall'art. 21, primo comma, della Costituzione.

Il denunciato contrasto non sussiste, ove dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale si dia corretta interpretazione.

Ogni ordinamento statuale prevede e indica i mezzi per mutare le leggi penali quando esse appaiono non più rispondenti al comune sentimento della giustizia. Non solo, quindi, i regimi autoritari, ma altresì quelli liberali, democratici, popolari hanno sempre preveduto e prevedono il reato d'apologia del delitto, già contemplato nell'art. 247 del codice penale italiano del 1889.

L'art. 414, ultimo comma, del codice penale non limita in alcun modo la critica della legislazione o della giurisprudenza, né l'attività propagandistica di singoli, partiti, movimenti, gruppi, diretta a promuovere la deletio di qualsiasi norma incriminatrice, anche nel momento in cui essa viene applicata in concreto. Né costituisce reato d'apologia l'affermare che fatti preveduti dalla legislazione vigente come delitti hanno, o possono avere, soggettivamente od oggettivamente positivo contenuto morale o sociale: che l'autore di un reato possa aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale è riconosciuto del resto dall'art. 62 n. 1 del codice penale.

Diversa dalla critica alla legge, dalla propaganda per il suo aggiornamento, dal giudizio favorevole sui moventi dell'autore, che sono tutte lecite manifestazioni di pensiero, è la pubblica apologia diretta, e idonea, a provocare la violazione delle leggi penali.

Plaudire a fatti che l'ordinamento giuridico punisce come delitto e glorificarne gli autori è da molti considerata una ipotesi di istigazione indiretta: certo è attacco contro le basi stesse di ogni immaginabile ordinamento apologizzare il delitto come mezzo lodevole per ottenere l'abrogazione della legge che lo prevede come tale. Non sono concepibili, infatti, libertà e democrazia se non sotto forma di obbedienza alle leggi che un popolo libero si dà liberamente e può liberamente mutare.

L'apologia punibile ai sensi dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale non è, dunque, la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti.

Si vuole ricordare, a chiarimento, che la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21, primo comma, della Costituzione, trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell'esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema (sentenze n. 19 dell'8 marzo 1962, n. 87 del 6 luglio 1966, n. 84 del 2 aprile 1969).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 21, primo comma, della Costituzione, dal giudice istruttore presso il tribunale di Rovigo, con ordinanza 23 novembre 1968.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1970.

 

 

 

Scritto il 19 febbraio 2012

 

 

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