N. 65
SENTENZA 23 APRILE 1970
Deposito in cancelleria: 4 maggio
1970.
Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 113 del 6 maggio 1970.
Pres. B. - Rel. R.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Prof. G. B.,
Presidente - Prof. M. F. - Prof. C. M. - Prof. G. C. - Dott. G. V. - Dott. G.
B. B. - Prof. F. P. B. - Dott. L. O. - Dott. A. D. M. - Avv. E. R. - Prof. E.
C. - Prof. V. M. T. - Prof. V. C. - Dott. N. R. - Prof. P. R., Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell'art. 414, ultimo comma, del codice Penale, promosso con
ordinanza emessa il 23 novembre 1968 dal giudice istruttore del tribunale di
Rovigo nel procedimento penale a carico di T. L. G. e M. P., iscritta al n.
261 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 25 del 29 gennaio 1969.
Visto l'atto d'intervento del
Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nell'udienza pubblica del 28
gennaio 1970 il Giudice relatore P. R.;
udito il sostituto avvocato
generale dello Stato F. C., per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto
in fatto:
Il giudice istruttore presso il
tribunale di Rovigo, richiesto dal p .m. di emettere decreto di archiviazione
nei confronti di L. G. T. e di P. M., imputati di apologia di delitto per
aver giustificato il reato di disobbedienza per cui tale B. era stato
denunziato alla procura militare di Torino (art. 173 c.p.m.p.),
respingeva l'istanza, disponendo l'ulteriore corso del procedimento.
Il giudice procedente osservava
che nell'articolo "L'obiettore di coscienza" a firma del T., erano
contenute frasi di apprezzamento della condotta degli obiettori di coscienza,
(quale "... forse, oggi è prematuro abolire l'obbligo del servizio
militare; ma per questo è anche preziosa la presenza di coloro che, a costo
di pagare di persona, portano avanti l'idea che un giorno bisognerà farne a
meno se ci si vorrà considerare ancora popoli civili ") che, secondo una
certa interpretazione potevano essere sufficienti ad integrare gli estremi
del reato previsto nell'ultimo comma dell'art. 414 del codice penale.
Sollevata dal difensore questione
di legittimità costituzionale della norma incriminatrice, per contrasto con
l'art. 21, primo comma, della Costituzione che garantisce il diritto di
libera manifestazione del pensiero, il giudice a quo, ritenendo la questione
rilevante e non manifestamente infondata, rimetteva gli atti del giudizio
alla Corte costituzionale.
Con atto depositato il 18 febbraio
1969 interveniva in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri,
rappresentata dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi
l'infondatezza della questione proposta.
Osserva l'Avvocatura che l'art. 21
della Costituzione non pone in essere un diritto illimitato, tanto vero che
la Corte costituzionale ha riconosciuto che operano in senso limitativo,
oltre la tutela del buon costume, espressamente richiamata, l'esigenza di
impedire turbamenti dell'ordine pubblico, il cui mantenimento costituisce una
finalità immanente nel sistema (sentenze n. 87 del 1966 e 19 del 1962).
In secondo luogo, osserva
l'Avvocatura, anche ad aderire alla più rigorosa interpretazione dell'art.
414, ultimo comma, del codice penale, l'apologia di delitto si riferisce
sempre ad un concreto determinato avvenimento del passato, onde non può
concernere la libera critica al sistema o alle sue singole norme. Mentre,
dunque, la manifestazione del puro pensiero, scientifico, religioso,
politico, ecc., tutelata dal principio costituzionale invocato, rimane del
tutto estranea alla norma incriminatrice denunciata, questa punisce soltanto
l'elogio del singolo fatto storico vietato penalmente, per la possibilità
dell'evento turbativo dell'ordine pubblico che ne deriva immancabilmente.
Considerato
in diritto:
La questione sottoposta all'esame
della Corte è la seguente: se l'art. 414, ultimo comma, del codice penale,
colpendo la pubblica apologia di ogni delitto, non possa, in talune ipotesi,
costituire ingiusto impedimento alla libertà di manifestare il proprio
pensiero; libertà fondamentale garantita a tutti, senza distinzione di modi e
di materia, dall'art. 21, primo comma, della Costituzione.
Il denunciato contrasto non
sussiste, ove dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale si dia corretta
interpretazione.
Ogni ordinamento statuale prevede
e indica i mezzi per mutare le leggi penali quando esse appaiono non più
rispondenti al comune sentimento della giustizia. Non solo, quindi, i regimi
autoritari, ma altresì quelli liberali, democratici, popolari hanno sempre
preveduto e prevedono il reato d'apologia del delitto, già contemplato
nell'art. 247 del codice penale italiano del 1889.
L'art. 414, ultimo comma, del
codice penale non limita in alcun modo la critica della legislazione o della
giurisprudenza, né l'attività propagandistica di singoli, partiti, movimenti,
gruppi, diretta a promuovere la deletio di qualsiasi norma incriminatrice, anche nel
momento in cui essa viene applicata in concreto. Né costituisce reato
d'apologia l'affermare che fatti preveduti dalla legislazione vigente come
delitti hanno, o possono avere, soggettivamente od oggettivamente positivo
contenuto morale o sociale: che l'autore di un reato possa aver agito per
motivi di particolare valore morale o sociale è riconosciuto del resto
dall'art. 62 n. 1 del codice penale.
Diversa dalla critica alla legge,
dalla propaganda per il suo aggiornamento, dal giudizio favorevole sui
moventi dell'autore, che sono tutte lecite manifestazioni di pensiero, è la
pubblica apologia diretta, e idonea, a provocare la violazione delle leggi
penali.
Plaudire a fatti che l'ordinamento
giuridico punisce come delitto e glorificarne gli autori è da molti
considerata una ipotesi di istigazione indiretta: certo è attacco contro le
basi stesse di ogni immaginabile ordinamento apologizzare il delitto come
mezzo lodevole per ottenere l'abrogazione della legge che lo prevede come
tale. Non sono concepibili, infatti, libertà e democrazia se non sotto forma
di obbedienza alle leggi che un popolo libero si dà liberamente e può
liberamente mutare.
L'apologia punibile ai sensi dell'art. 414, ultimo comma, del codice
penale non è, dunque, la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma
quella che per le sue modalità integri un comportamento concretamente idoneo
a provocare la commissione di delitti.
Si vuole ricordare, a chiarimento, che la libertà di manifestazione del
pensiero, garantita dall'art. 21, primo comma, della Costituzione, trova i
suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume, ma anche nella
necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell'esigenza di
prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela
costituisce una finalità immanente del sistema (sentenze
n. 19 dell'8 marzo 1962, n. 87 del 6 luglio 1966, n. 84 del 2 aprile 1969).
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 414, ultimo comma, del codice penale, sollevata, in
riferimento all'art. 21, primo comma, della Costituzione, dal giudice
istruttore presso il tribunale di Rovigo, con ordinanza 23 novembre 1968.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 aprile 1970.
|