LUCCIOLA GRAZIATA DAL CONSIGLIO DI STATO
Di recente il Consiglio di Stato con la Sentenza n. 3451/2011 ha ribadito che
la prostituzione tra adulti esercitata sulla strada non può essere giudicata un
pericolo senza che vi siano fatti concreti di reato riguardanti la pubblica
sicurezza con abituale commissione di questi e la conseguente impossibilità ad
applicare il Foglio di Via Obbligatorio
previsto dall’articolo 2 della Legge
1423/1956 e modifiche.
Nel medesimo testo la
suddetta Corte giudicante ha rilevato che la sola pericolosità viabilistica
dovuta all’esercizio del meretricio da strada non può essere giustificativa nel
promuovere il suddetto decreto a causa del fatto che a compiere tale situazione
non sono i soggetti dediti alla prostituzione, bensì gli stessi automobilisti,
i quali non compiono reati ma violazioni amministrative relative al Codice
della Strada.
Lo stesso Consiglio di Stato ha anche richiamato
una possibile applicazione del provvedimento in questione, se l’adescamento
previsto dall’articolo 5 della Legge 75/1958 “Merlin” fosse ancora
penalmente perseguibile ed anche per il reato di atti osceni in luoghi pubblici
(ex articolo 527 Codice Penale, per
il quale oltretutto è prevista una sanzione amministrativa quando il fatto
relativo avviene per colpa) se tali fatti venissero esercitati contro i minorenni.
In merito, però a
differenza della Sentenza in questione, devo sottolineare che ai sensi dello
stesso articolo 2 della Legge 1423/1956,
i soggetti potenzialmente allontanabili devono rientrare nella categoria
riguardanti quelli pericolosi per la pubblica sicurezza e non più in quelli
contro la pubblica moralità, grazie alle modifiche apportate alla stessa
branchia normativa dalla Legge 327/1988
e non si può assolutamente escludere che la persona in esame possa benissimo
evitare di fornire i relativi servigi sessuali a minorenni, chiedendo a questi
un documento d’identità.
Rivelo, inoltre, che
le donne adulte che esercitano la prostituzione o sospettate di tale attività
non possono essere registrate in maniera diretta od indiretta ai sensi
dell’articolo 7 della suddetta legge sulla
prostituzione in Italia.
Questi due punti
potrebbero essere un ulteriore tesi per non dichiarare applicabile il
provvedimento del Foglio di Via
Obbligatorio a chi tra persone maggiorenni esercita e/o a chi si avvale del
meretricio su strada oppure al chiuso.
Infine, denoto che il Consiglio di Stato con la pronuncia in
esame ha dichiarato non sussistente il vizio del corrispondente provvedimento
di allontanamento per il relativo mancato avviso di procedimento in merito.
Si elenca di seguito
il testo della Sentenza n. 3451/2011
della suddetta Corte giudicante.
N. 03451/2011REG.PROV.COLL.
N. 00358/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul
ricorso numero di registro generale 358 del 2011, proposto da: Ministero
dell'Interno, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata
per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
N.
S.;
per
la riforma
della
sentenza del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE III n. 05051/2009, resa tra le
parti, concernente ORDINE DI RIMPATRIO CON FOGLIO DI VIA OBBLIGATORIO
Visti
il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste
le memorie difensive;
Visti
tutti gli atti della causa;
Relatore
nell'udienza pubblica del giorno 20 maggio 2011 il Cons. V. S. e udito
l’avvocato dello Stato V.;
Ritenuto
e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
e DIRITTO
1.
L’attuale appellata, già ricorrente in primo grado, è stata destinataria di un
ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, ai sensi dell’art. 2 della
legge n. 1423/1956. Precisamente, il Questore di Milano le ha ordinato di
lasciare il Comune di Cisliano, e di rientrare nel Comune di residenza, ossia
Milano; e di non tornare in Cisliano per la durata di tre anni.
Ciò
sulla base di una motivazione che sarà esaminata in dettaglio più avanti, ma
che in sintesi si riferisce al fatto che l’interessata è solita praticare la
prostituzione “stradale”, per l’appunto nel territorio di Cisliano, «creando un
notevole pericolo e intralcio alla circolazione stradale».
2.
L’interessata ha impugnato il provvedimento davanti al T.A.R. Lombardia,
deducendo varie censure di legittimità.
Il
T.A.R. Lombardia, con la sentenza ora appellata, ha accolto il ricorso,
ravvisando nell’atto i seguenti vizi: (a) mancata comunicazione dell’avviso di
procedimento; (b) carenza di motivazione; (c) insussistenza dei presupposti di
legge.
3.
L’Amministrazione dell’Interno propone appello davanti a questo Consiglio. La
controparte non si è costituita.
4.
Prima di entrare nel merito dell’appello, si ritiene opportuno puntualizzare
che gli effetti del provvedimento non si limitano all’allontanamento dal
territorio di Cisliano. Ed invero, se solo di questo si trattasse, il carattere
pregiudizievole del provvedimento sarebbe trascurabile o quasi, considerate le
minime dimensioni di quel Comune (circa 3.000 abitanti) e il fatto che per
l’interessata è verosimilmente indifferente esercitare la sua attività in un
luogo piuttosto che in altro (per le stesse ragioni, del resto, quel
provvedimento sarebbe di assai scarsa efficacia dal punto di vista
dell’interesse pubblico). Il provvedimento, invece, è lesivo in quanto
qualifica ipso facto l’appellata come persona socialmente pericolosa ai
sensi ed ai fini della legge n. 1423/1956, e pone le premesse per
l’applicazione, pressoché inevitabile, di ulteriori misure ben più gravose.
Donde
la necessità che i presupposti vengano vagliati rigorosamente.
5.
Passando ora al merito, si ritiene che dei vizi riconosciuti dal T.A.R. è
invece insussistente quello di omessa comunicazione dell’avviso di procedimento
(art. 7, legge n. 241/1990).
Provvedimenti
di pubblica sicurezza come quello di cui si discute, infatti, si caratterizzano
per la loro implicita funzione (anche) cautelare e per l’urgenza in re ipsa, in quanto diretti a rimuovere una situazione di
attuale e grave pericolo per la pubblica sicurezza; in questo sono assimilabili
alle ordinanze contingibili e urgenti del sindaco. Del resto la relativa
compressione del diritto di difesa è bilanciata dal fatto che contro simili
provvedimenti è ammesso il ricorso gerarchico al Prefetto (ne è fatta menzione
anche nell’atto impugnato in primo grado) e per questa via la parte interessata
può far valere tutti quegli argomenti, anche di puro merito (come tali non
deducibili nel giudizio di legittimità) che avrebbe potuto esporre in
contraddittorio con l’autorità emanante, se vi fosse stato l’avviso.
Sotto
questo profilo, la sentenza del T.A.R. va dunque riformata.
6. Le
ulteriori censure – carenza di motivazione e insussistenza dei presupposti –
possono essere trattate unitariamente, come è stato fatto anche in primo grado.
A
questo proposito, conviene partire dall’analisi del testo normativo, e cioè
dalla legge n. 1423/1956, art. 1, che reca la definizione delle persone
socialmente pericolose.
6.1.
Secondo detta norma, le persone suscettibili delle apposite misure di
prevenzione sono: «1) coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di
fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi; 2) coloro che per la
condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto,
che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;
3) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi
di fatto, che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in
pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o
la tranquillità pubblica».
Va
notato che questo è il testo vigente, così sostituito dall'articolo 2 della
legge 3 agosto 1988, n. 327.
Secondo
il testo originario del 1956, invece, le persone suscettibili delle misure di
prevenzione erano così individuate: «1) gli oziosi e i vagabondi abituali,
validi al lavoro; 2) coloro che sono abitualmente o notoriamente dediti a
traffici illeciti; 3) coloro che, per la condotta e il tenore di vita, debba
ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti o
con il favoreggiamento o che, per le manifestazioni cui abbiano dato luogo,
diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere; 4) coloro
che, per il loro comportamento siano ritenuti dediti a favorire o sfruttare la
prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, ad esercitare
il contrabbando, ovvero ad esercitare il traffico illecito di sostanze tossiche
o stupefacenti o ad agevolarne dolosamente l'uso; 5) coloro che svolgono
abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume».
6.2.
Come si vede, il testo del 1956 risultava applicabile anche alla prostituzione
di strada, unanimemente identificata con l’ipotesi del n. 5 (a quel tempo
vigeva ancora la regolamentazione della prostituzione nelle case di tolleranza,
abrogata nel 1958).
Il
testo del 1988 (vigente) è notevolmente più restrittivo. La restrizione è stata
duplice.
Da un
lato, si è imposto alla p.a. di assumere, quali indizi di pericolosità, solo
precisi “elementi di fatto”, intuitivamente da esporre nella motivazione. Dall’altro
lato, si è ristretto l’ambito di applicazione della legge a comportamenti
qualificati in ogni caso dalla loro rilevanza penale, e per di più consumati, e
non solamente previsti (“traffici delittuosi” al n. 1; “attività
delittuose” al n. 2; “dediti alla commissione di reati” al n. 3).
Sotto
questo profilo le misure di prevenzione differiscono dalle sanzioni penali solo
perché per queste ultime la commissione del reato dev’essere certa e la
colpevolezza del soggetto rigorosamente provata, mentre per le misure di
prevenzione è sufficiente un minor grado di certezza, ossia una ragionevole
sospettabilità.
D’altra
parte, mentre la sanzione penale va sempre applicata, purché il fatto sia
certo, anche se si tratti di un episodio assolutamente isolato, le misure di
prevenzione richiedono l’abitualità. Fatte tutte queste distinzioni, tuttavia,
si deve ribadire che secondo il testo vigente della legge n. 1423/1956 il
presupposto delle misure di sicurezza è che al soggetto si ascrivano (sia pure
a titolo di sospetto) comportamenti di rilevanza penale. E’
stato invece eliminato ogni riferimento ai comportamenti che, pur qualificabili
come disdicevoli, contrari al buon costume, ecc., non sono caratterizzati dalla
rilevanza penale.
6.3.
Ne consegue che, per una scelta certamente consapevole del legislatore del
1988, la prostituzione “di strada”. che di per sé non costituisce reato, non è
neppure presupposto per l’applicazione delle misure di prevenzione.
Può
esserlo, semmai, qualora si associ a comportamenti penalmente rilevanti,
beninteso se ascrivibili allo stesso soggetto; i reati di favoreggiamento,
sfruttamento, etc., della prostituzione altrui giustificano le misure di
prevenzione nei confronti di chi ne è l’autore, non di chi ne è il soggetto
passivo.
6.4.
Nel sistema in cui veniva ad inserirsi la modifica del 1988, tuttavia, era
previsto il reato di adescamento, definito come il comportamento di chi, in
luogo pubblico od aperto al pubblico, invita al libertinaggio in modo
scandaloso o molesto; ovvero segue per via le persone, invitandole con atti o
parole al libertinaggio: art. 5 della legge n. 75/1958 (legge Merlin). Tali
comportamenti facilmente – anche se non automaticamente - si associano alla
prostituzione di strada; di conseguenza, chi esercitava quest’ultima attività
poteva incorrere nelle misure di prevenzione in quanto responsabile del reato
di adescamento.
Ma
l’adescamento è stato depenalizzato dal decreto legislativo n. 507/1999. La
conseguenza di quest’ultimo intervento legislativo è che l’adescamento, pur
quando abituale e plateale, non può fungere da motivo per l’applicazione delle
misure di prevenzione di cui alla legge n. 1423/1956. Si direbbe il contrario
se il legislatore del 1999, mentre aboliva il reato di adescamento, avesse
riformulato l’art. 1, n. 3, della legge del 1956 (come modificato nel 1988),
equiparando ai reati gli illeciti amministrativi. Ma non l’ha fatto.
7.
Ciò premesso, si osserva che il provvedimento impugnato in primo grado si apre
con l’affermazione che l’attuale appellata «è stata indagata per falsità
ideologica commessa dal privato in atto pubblico e per falsa attestazione o
dichiarazione sulla identità o su qualità personali proprie o di altri»; si
tratta di un comportamento di rilevanza penale, ma non viene rappresentato in
termini di abitualità, e comunque nell’economia complessiva del provvedimento
assume un rilievo secondario o addirittura nullo, anche nelle intenzioni
dell’autorità emanante. Infatti la motivazione (che prosegue con le altre
annotazioni di cui appresso) culminerà e si concluderà con frase: «la
[interessata], sulla base degli elementi di fatto sopra esposti, risulta dedita
alla prostituzione ed è da ritenersi pericolosa per la sicurezza pubblica»,
dove si vede che l’episodio (non meglio descritto) delle false dichiarazioni
non ha rilevanza nel contesto.
8.
Quanto agli altri (e ben più importanti, nelle intenzioni dell’autorità
emanante) “elementi di fatto”, si trascrivono come segue:
(a) «la
medesima è stata più volte controllata (...) lungo la S.P. 114, zona di intenso
traffico veicolare (...) in atteggiamento dedito alla prostituzione, creando un
notevole pericolo ed intralcio alla circolazione stradale»;
(b)
«anche se la prostituzione non costituisce reato, offende comunque il comune
senso del pudore, e l’adescamento posto in essere in luoghi di pertinenza
veicolare origina (...) un grave pericolo per la sicurezza stradale e la
tranquillità pubblica»;
(c)
«[la predetta] non risiede in Cisliano, in quel Comune non ha parenti né
espleta alcuna attività lavorativa».
Come
si vede, non vi è alcun cenno a comportamenti penalmente rilevanti, in qualche
modo associati all’esercizio della prostituzione.
E ciò
è comprovato, all’evidenza, dal fatto che l’autorità di pubblica sicurezza non
ha denunciato l’interessata all’autorità giudiziaria per alcun reato, cosa che
verosimilmente non avrebbe trascurato di fare ove ne avesse avuta materia.
9.
Per completezza, ci si vuol dare carico dell’ipotesi che alla prostituzione di
strada si associ il reato di atti osceni in luogo pubblico. In effetti questo
reato può concorrere facilmente – ma, di nuovo, non automaticamente - con
l’esercizio della prostituzione di strada. Il sospetto dell’abituale
commissione di questo reato potrebbe attendibilmente essere ricondotto alla
previsione dell’art. 1, n. 3, della legge n. 1423/1956 e quindi giustificare le
misure di prevenzione.
Ma
sta di fatto che il provvedimento della Questura di Milano non vi fa alcun
cenno, neppure indiretto. Esso si concentra, invece, sulla considerazione che
la presenza di una prostituta al bordo di una strada trafficata crea pericolo
ed intralcio alla circolazione stradale; si capisce che la Questura vuole qui
alludere al fatto che gli autoveicoli dei potenziali clienti (o anche dei
semplici curiosi), rallentando e sostando, intralciano il traffico.
Comportamenti, questi ultimi, che potrebbero forse configurarsi come
contravvenzioni al codice della strada, ma che in ogni caso sono imputabili ai
conducenti dei veicoli e non (o almeno non direttamente) alle prostitute in
attesa al bordo della strada.
Si
può ammettere che queste forme di intralcio alla circolazione stradale
costituiscano inconvenienti seri; e lo stesso si può dire di altri aspetti connessi
alla presenza di prostitute sulla strada, come ad esempio, disturbo e disagio
per gli incolpevoli residenti nella zona. E’ meritorio
che le autorità pubbliche affrontino questi sgradevoli fenomeni, e altresì che
guardino con preoccupazione al mondo di sfruttamento e favoreggiamento,
talvolta anche di violenza e di criminalità organizzata, e in casi estremi di
vera e propria riduzione in schiavitù, che ruota intorno alla prostituzione
(reati gravissimi dei quali peraltro le persone che si prostituiscono sono
vittime e non responsabili). Ma tutti questi gravi problemi non possono essere
discussi in questa sede.
Ai
fini del presente giudizio, si può dire soltanto che lo strumento delle misure
di prevenzione di cui alla legge n. 1423/1956 ha una sua funzione tipica e
presupposti altrettanto tipici; e che l’atto della Questura di Milano non
corrisponde a questo modello tipico. Quanto meno, esso risulta viziato da una
motivazione carente, in quanto non adduce elementi idonei a fungere da
presupposto per l’applicazione delle misure di prevenzione di cui alla legge n.
1423/1956 nei confronti dell’attuale appellata.
10.
In conclusione, l’appello va respinto.
Non
vi è luogo a provvedere sulle spese, non essendovi stata costituzione di
controparte.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) definitivamente
pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Nulla per le
spese.
Ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così
deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 maggio 2011 con
l'intervento dei magistrati:
P. G. L., Presidente, Estensore
M. L., Consigliere
S. C., Consigliere
V. S., Consigliere
R. C., Consigliere
IL
PRESIDENTE, ESTENSORE |
||
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il
08/06/2011
IL
SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Scritto il 18 agosto 2011