CORTE
STRASBURGO, NON SCHEDABILI PROSTITUTE
La Corte Europea di Strasburgo ha dichiarato illecita
un’azione della Polizia svizzera che nel 1993 ha schedato una donna francese
come prostituta a Losanna, poiché questa è stata trovata dalla detta autorità
di Pubblica Sicurezza in possesso di un biglietto da visita che riportava i
richiami tipici di una donna che voleva offrire dei potenziali incontri di
sesso a pagamento. Nel 2005 la stessa persona ha scoperto di essere ancora
schedata come meretrice dalla Polizia elvetica. Di conseguenza, la donna
francese in questione ha fatto ricorso al succitato Tribunale internazionale,
il quale con la Sentenza 18 ottobre
2011, ricorso n. 16188/07, ha stabilito in merito la violazione dell’articolo 8 della Convenzione del Consiglio d’Europa
(da non confondere quest’ultimo con l’Unione Europea) sui Diritti dell’Uomo. Tale illecito è stato giustificato dal fatto
che la detta persona è rimasta schedata per lungo tempo e senza un concreto
pericolo per la sicurezza o l’ordine pubblico.
Di seguito si elencano alcuni
capoversi, tradotti dal francese, della Sentenza in merito che evidenziano le
motivazioni corrispondenti.
56. La Corte stima che in
questo caso la registrazione dei dati relativi alla vita privata del richiedente, che comprende la professione e la loro conservazione,
costituiscono un'ingerenza ai sensi dell'articolo
8 della Convenzione, perché
si tratta di dati personali relativi ad
un individuo identificato o identificabile. A questo proposito, si osserva che, per quanto riguarda la
professione della ricorrente, la
menzione "prostituta" è stata eliminata dal
sistema informatico della Polizia
e sostituito con "costumista".
Tuttavia, risulta dalle sentenze dei tribunali del Cantone di Ginevra che la parola in questione connessa ai
diversi processi penali non è stata soppressa.
57. Pertanto, la Corte stima
che vi è stata ingerenza con i diritti della ricorrente ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione.
Conviene esaminare di seguito, se l'interferenza
è stata giustificata ai sensi del
paragrafo 2 di tale disposizione.
(Omissis)
63. Per
quanto riguarda la questione se l'ingerenza è stata proporzionata e ha
riflettuto un giusto equilibrio tra interessi pubblici e privati coinvolti, la
Corte constata che l’allegato della ricorrente secondo il quale è indicata come
"prostituta" negli archivi della Polizia del Cantone di Ginevra dal
1993, solleva un problema serio, perché la registrazione ha avuto luogo in un
tempo molto lungo. Pertanto, questa ingerenza nel diritto tutelato
dall'articolo 8 non può essere giustificata dall'esistenza di circostanze
particolari e da dei motivi supportati da materia convincente.
64. La
Corte stima che il riferimento in questione può danneggiare la reputazione
della ricorrente e come essa sostiene, rendere più difficile la sua vita
quotidiana, dato che le informazioni contenute negli archivi della Polizia
possono essere trasmessi alle autorità. Questo è particolarmente importante ai
nostri giorni, quando, come nella specie, i dati personali sono oggetto di un
trattamento automatizzato, che facilita notevolmente l'accesso ad essi ed alla
loro diffusione. Tenuto conto di quanto precede, la Corte constata che la
ricorrente aveva notevole interesse per vedere la parola "prostituta"
cancellata dai file e dagli archivi della Polizia.
65. Per
quanto riguarda poi l'interesse pubblico che rappresentava per le autorità la
conservazione della parola in questione nei registri della polizia, la Corte
constata che la ricorrente è stata considerata come una "prostituta"
nel 1993, sulla base del semplice fatto che sono stati trovati con sé dei
biglietti da visita durante un controllo di Polizia. È oltretutto chiaro che
dalla decisione del Tribunale Federale, la parola "prostituta" è giustamente
stata corretta nella banca dati informatizzata della Polizia, perché “non è
stato stabilito che la ricorrente era effettivamente dedita alla
prostituzione" (considerando 4 del Giudizio, punto 18 sopra).
66. Il
Tribunale Federale ha inoltre rilevato che la ricorrente è stata solo
sospettata di dedicarsi alla prostituzione illegale. Se la Corte riconosce in
linea di principio che può essere conforme con il presupposto di
proporzionalità conservare dei dati relativi alla vita privata di una persona sulla
base del fatto che possa essere recidiva, essa stessa è dell’avviso che
l'imputazione di prostituzione illegale sembra molto vaga e generale, e non è
supportata da fatti concreti.
67. Anche
se la richiedente è stata condannata il 26 maggio 2005 ad una pena di venti
giorni di reclusione con la sospensiva di cinque anni per diffamazione e uso
improprio di un impianto di telecomunicazioni a seguito di due denunce penali
presentate contro lei stessa, la Corte non prende in considerazione come
sufficiente il nesso stretto di causalità in questa condanna, leggera ed il
mantenimento della parola in riferimento.
68. La
Corte non sottovaluta in alcun modo l'importanza di un'efficace prevenzione del
crimine. Tuttavia, in considerazione di quanto sopra, specialmente data
l'importanza della presunzione di innocenza in una società democratica (v., in
questo senso, S. e M. contro Regno Unito, citata sopra, § 122), non può
accettare che il mantenimento della parola "prostituta" come
professione della ricorrente, che non è mai stata condannata per esercizio
illegale della prostituzione ai sensi dell’articolo 199 del codice penale
(paragrafo 23 sopra), possa andare a soddisfare un "bisogno sociale
imperioso" ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione. Né le autorità nazionali,
né il Governo hanno inoltre sostenuto che l'eliminazione del problema di
riferimento dal file della Polizia era impossibile o difficile per motivi
tecnici.
Quindi, per giustificare la non
applicazione di un diritto riconosciuto dalla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, per un Paese
democratico, bisogna prendere in considerazione fatti reali e concreti.
Riguardo ad una correlazione con
il Decreto Legislativo italiano n.
159/2011 (che ha sostituito la Legge
1423/1956), il quale viene applicato per allontanare le prostitute con il
Foglio di Via Obbligatorio dal Comune nel quale sono trovate, bisogna osservare
non solo l’articolo 8 della suddetta
norma internazionale, ma principalmente il relativo articolo 11.
Si elencano di seguito le due
succitate branche della corrispondente Convenzione.
Articolo
8
Diritto al rispetto della vita privata e familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della
propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria
corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una
autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica,
è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere
economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla
protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle
libertà altrui.
Articolo 11
Libertà di riunione e di associazione.
1. Ogni persona ha diritto alla libertà di
riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di
partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa
dei propri interessi.
2. L’esercizio di questi diritti non può
essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge
e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla
sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla
prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione
dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che
restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei
membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato.
Dall’ultimo articolo elencato, si
può notare come questo si possa agganciare al primo al fine di derogare i
rispettivi diritti per i cittadini dello Stato democratico che ha adottato la
relativa Convenzione. Di conseguenza, per limitare la riunione delle persone
deve sussistere una motivazione basata su fatti concreti per prevenire certi
reati e non fondata su semplici supposizioni, come è stato per il biglietto da
visita nel 1993 che ha svolto ricorso alla Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo.
Visti e considerati gli articoli 10 e 117 della Costituzione
Italiana che garantiscono l’uniformità dell’Ordinamento del nostro Stato al
Diritto internazionale riconosciuto da questo, si potrebbe benissimo sollevare
la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 del D.Lgs 159/2011, nella parte in cui questo non
prevede l’accertamento concreto dei relativi elementi di fatto.
Non dimentichiamoci anche
dell’esistenza dei dettami dell’articolo 7 della Legge 75/1958 “Merlin” che vieta alle
autorità di registrare le donne come prostitute o presunte tali, salvo i soli fini fiscali.
Scritto il 29 ottobre 2011